Non c’è nulla da fare, quando un gruppo con più di un paio di decenni sul groppone annuncia il tour anniversario di un album simbolo, con un paio di decenni sul groppone anche lui, nel cuore del fan si combatte una battaglia: da un lato la gioia di sentire un pezzo di storia della musica riproposto per intero, recuperare pezzi magari mai ascoltati nella cornice del live, dall’altro l’inevitabile immagine, ormai nota, della band bolsa e senza più nulla da dire, intrappolata in una riproposizione autocelebrativa dei fasti del passato.
Un po’ di timore è inevitabile anche quando a proporre l’operazione sono personaggi del calibro dei Massive Attack, una di quelle band che ha saputo invecchiare con classe fra nuove uscite sempre convincenti, live impeccabili, un impegno politico costante ma misurato e mai fuori luogo, apparizioni sugli spalti dello stadio S. Paolo di Napoli e un po’ di gossip sull’affaire Banksy.
Del resto se c’è un album che merita attenzione al passaggio della boa dei vent’anni, anzi ventuno (l’anniversario cadeva l’anno scorso ed è stato festeggiato con cospicue dosi di re-release, per questo il tour 2019 si chiama Mezzanine XX1), è proprio Mezzanine. Un disco figlio del proprio tempo, della cerniera fra gli anni 90 del secolo scorso e il nuovo millennio; un disco che, come del resto tutti i capolavori, nel rappresentare il proprio tempo ha anticipato qualcosa del tempo a venire, questi vent’anni di anni 2000 iperconnessi, globalizzati e post-tutto, che il collettivo di Bristol anticipava pescando a piene mani dall’elettronica e dalla musica suonata di ascendenza rock, dalla new wave e dal post punk come da soul, reggae e dub, scagliando tutto in un flusso vortica inquieto fra passato, presente e futuro.
Ed è proprio con un esempio plastico di come i Robert del Naja, Daddy G e compagni sono stati bravi a ‘pescare a piene mani’ che si apre il concerto, davanti ad un Palalottomatica stracolmo di persone reduci da un’impegnativa playlist a base di Madonna, Cher, Britney Spears.
Si vola subito indietro nel tempo con una cover, ‘I found a reason’ dei Velvet Underground. Da subito la scaletta si configura come un viaggio non solo attraverso la tracklist di Mezzanine, ma attraverso le sue fondamenta sonore e le sue ispirazioni.
In senso lato o in senso prettamente materiale: un passaggio di ‘I found a reason’ è campionato in ‘Risingson’, che infatti viene eseguita subito dopo, così come ‘10:15 Saturday night’ dei Cure è accoppiata per lo stesso motivo a ‘Man next door’ e ‘Inertia creeps’ a ‘Rockwrok’ degli Ultravox, (uno dei momenti più divertenti dello show), da cui ha fagocitato l’iconico giro di basso.
Per il resto, abbiamo ancora post punk, con una ‘Bela Lugosi’s dead’ imponente e verde acida, il reggae di Horace Handy (‘See a man’s face), una commovente ‘Where have all the flowers gone’, inno pacifista anni ‘60 cantato praticamente da tutti e il cui titolo compare come verso in ‘Risingson’.
Momenti che contribuiscono a dare pennellate di colori diversi, in tonalità con il resto del repertorio o fortemente discordanti come quelli dell’inno EDM ‘Levels’ di Avicii. Momento allo stesso tempo esilarante e cupo, poco capito dal pubblico, ma la cui presenza va letta, come quella delle altre cover, non solo alla luce del viaggio in Mezzanine e nel suo background, ma anche della riflessione su passato-presente-futuro raccontata dai visual realizzati per l’occasione.
Le immagini fanno su e giù fra futuristiche utopie naif renderizzate, dettagli di occhi e volti presi da filmati di repertorio di qualche decennio fa, vecchie schermate di pc, i volti della politica di oggi (immancabile il ‘buu’ all’indirizzo di Trump) che si mescolano e si confondono, ma anche quelli delle icone culturali che ci hanno lasciato ma continuano a infestarci come spettri (e qui si vede in una luce diversa la cover di Aviici, morto l’anno passato), oltre a truculente scene di guerra e violenza, marche e confezioni di psicofarmaci.
Insieme alle frasi (tradotte nella lingua del paese ospitante, come da tradizione) le immagini compongono un racconto che abbraccia gli ultimi vent’anni a partire da quel finale di millennio, giustamente visto come l’alba di processi di cui solo ora iniziamo a vedere la potenza, dalla raccolta dei dati tramite internet allo sviluppo delle IA. Temi di cui nell’alienata distopia paranoide di Mezzanine si aggiravano già le ombre, come l’aumento del consumo di psicofarmaci e oppiacei, dipinta in ‘Inertia creeps’ e fra i temi principali dello show. Oggi il futuro tecnologico e globalizzato che ci era stato promesso vent’anni fa è una dittatura sottile e impersonale, implacabile come un Grande Fratello senza volto, che oltre a controllarci ci conosce come le sue tasche: ‘if you liked that, you will love this’ è una frase che riassume bene la nostra società digitale e che ci rimbalza violentemente in faccia dagli schermi.
Il forte nichilismo del messaggio trova un argine, e se no non sarebbe un messaggio politico ma una considerazione apocalittica, in una serie di frasi che incoraggiano l’empowerment dell’individuo, il prendere in mano il proprio destino: ‘siamo intrappolati in un loop perenne’, ci dicono gli schermi a fine concerto, ma possiamo liberarci da questo presente, schiacciato fra passato e futuro, e ‘iniziare a costruire il futuro’.
A corredo dei visual un parco luci imponente, che però punta su un impatto obliquo più che frontale. Muri di strobo e fasci di luce nascondono la band, accecano il pubblico ma esplodono in maniera disordinata, asimmetrica, diversa dai carrozzoni da discoteca di molte band con una produzione enorme. L’estetica di questo tour colpisce dal basso, di sguincio, come l’inerzia della canzone striscia.
Come del resto le canzoni di Mezzanine, sempre in equilibrio fra inquietudine ed estasi, potenza e grazia, complessità e sintesi. Una specificità che solo un gruppo come quello di 3D e Daddy G può ottenere dal vivo, forti di una pulizia del suono e un controllo delle dinamiche fuori dal comune. Merito della formazione con due batterie, che riesce a far passare il suono da un sussurro a un macigno e che regala dettagli incredibili, ma anche merito della volontà di attingere alla smisurata tavolozza sonora del disco tanto utilizzando suoni e sample fedelissimi alle tracce sul disco (che goduria le tastiere di Isaac Hayes in ‘Exchange’), quanto sfruttando il ruggito delle chitarre e il peso della ritmica per cambiare faccia ad alcuni degli arrangiamenti originali (‘Inertia creeps’ su tutti).
Sono proprio i pezzi con abbondanza di chitarre, ‘Dissolved girl’ e la conclusiva ‘Group Four’, a regalare dei momenti di potenza sonora che è difficile trovare anche ai concerti dei mostri sacri del rock, oltre a delle strofe delicate e haunting dall’atmosfera incredibile; due chicche che non sarà facile risentire dal vivo e senza dubbio fra gli highlights del concerto.
Per il resto Del Naja e Daddy G alle voci sono sempre un garanzia, e con il loro inconfondibile rap sussurrato tirano le fila di classici come ‘Rising son’ e ‘Inertia creeps’ (prevedibilmente, anche questa fra i momenti migliori), ma anche di graditi recuperi come la title track, oltre che a fornire un’ottima prestazione sulle cover, in primis su ‘Bela Lugosi’s dead’ e ‘Rockwrok’.
Con buona pace del fedele Horace Handy, ottimo sulla stupenda ‘Angel’ e sulla sua I see a man’s face, meno convincente su ‘Man next door’, la vera protagonista vocale della serata è Liz Fraser, voce dei Cocteau Twins e in alcune tracce di Mezzanine, eccezionalmente di nuovo in tour con la band.
‘Group four’ è un finale da brivido, ‘Black milk’ e ‘Where have all the flowers gone’ lasciano spazio alla sua vocalità matura ma ancora inconfondibile; però è l’immortale ‘Teardrop’, con il Palalottomatica perso ed accecato in un prisma di luce, a creare il momento più magico della serata.
Insomma i Massive Attack riescono ad utilizzare l’escamotage dell’anniversario per mettere su uno spettacolo unico ed attualissimo, unendo alla loro pulizia e perfezione sonora una produzione enorme, dai visual agli ospiti, e riempiendola di contenuti. Del resto con la scelta di avere sul palco i sample e le voci originali (quasi tutte), ma soprattutto di suonare una scaletta che al best of ha preferito i brani che fanno parte del background del disco, hanno superato a destra il rischio di autocelebrazione per sconfinare nella filologia vera e propria.
Merito, certo, della materia prima: risentito nel 2019, Mezzanine è un album quasi profetico, che mescolando una certa retromania per gli anni ‘80 con una Babele sonora e multiculturale, dove squarci di luce e di intensità si aprono in narrazioni cupe e alienate, riesce a parlare più dei vent’anni appena trascorsi (nella musica e fuori da essa) che del 1998 in cui vedeva la luce.
Con l’augurio di spezzare il loop in cui siamo intrappolati ed andare avanti, nella musica e fuori da essa.
Scopri la Setlist
https://www.setlist.fm/setlist/massive-attack/2019/palalottomatica-rome-italy-3b952088.html
https://www.massiveattack.co.uk/
autore: Sergio Sciambra