Americani di Atlanta, i Manchester Orchestra vogliono rendere omaggio nel nome alla città inglese di Smiths, Stone Roses, Fall ed Oasis, gruppi che considerano affini per il chiaroscurale, nervoso, umorale punto di vista sulla vita e sulla musica. E giunti al quinto disco possono essere considerati una solida e talentuosa realtà dell’indie americano contemporaneo, laddove A Black Mile to the Surface riesce persino a riconciliarci con l’emo resuscitandone gli aspetti nobili, dispersi da almeno 10 anni in una marea di produzioni insipide ed innocue, costruite intorno al teenager bianco americano.
Gli 11 brani del disco godono di una scrittura piuttosto buona, con testi generalmente centrati su relazioni problematiche e cervellotiche incomprensioni, un uso ad effetto delle parole in un flusso narrativo disordinato di incontri, descrizioni, ricordi, emozioni… e musiche di grande coinvolgimento (le poetiche ‘The Silence’ e ‘The Gold’, i singoloni ‘Lead, SD’ e ‘The Alien’), compatte, che si avvicinano nello stile ad Editors ed Arcade Fire ma con una ben maggiore malinconia di fondo sviluppata in parti melodiche ed assecondata bene dalla voce del cantante, che si scontrano con il solido fronte chitarristico, abbondanti aperture dai toni grandiosi (‘The Moth’) nei ritornelli ed una gestione del pathos molto attenta, malgrado dopo 4-5 pezzi appaia chiaro che lo schema di costruzione dei brani è un po’ ripetitivo, in questa idea teatrale di crescendo.
Andy Hull, leader del gruppo ed autore, mostra buone doti e trascina il quintetto elettrico, con i brani che sono tutti potenziali singoli dalla produzione accurata, ed infatti il pochi mesi la metà dei brani del disco è già stato abbinato ad un videoclip. Ed A Black Mile to the Surface si dimostra disco solido, riuscito, che avrebbe però beneficiato di un pizzico di originalità in più.
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autore: Fausto Turi