Non so quand’è successo di preciso, ma si può dire che Bill Callahan sia diventato famoso. Due sold out di fila alla Royal Festival Hall (duemilacinquecento posti a sedere) non sono cosa da tutti. O perlomeno non sono questi i numeri che immaginavo potesse attirare quello che ho sempre considerato una sorta di “outsider” del cantautorato a stelle e strisce, lo stesso che quasi sei anni fa non riuscì a riempire la piccola sala di Galleria Toledo a Napoli (oh, Napoli, quante cose riesci a perderti!).
Famoso o meno, poco importa. Il suo ultimo disco, “Dream River”, è tra i migliori lavori che mi è capitato di ascoltare ultimamente, ed è degno successore di quell’altro ottimo disco che è stato “Apocalypse”. E se dopo quasi venticinque anni di carriera semi-sommersa l’artista-un-tempo-conosciuto-come-Smog inizia finalmente a raccogliere i frutti del suo lavoro, non posso che esserne che felice.
Bill si presenta accompagnato da un trio (chitarra, basso, percussioni), occupando una piccolissima porzione dell’enorme palco dell’auditorium. Attacca con “The Sing”, e la sua voce profonda ipnotizza dalla prima sillaba. L’acustica del teatro è semplicemente perfetta, e ci consente di apprezzare ogni minima sfumatura. Bill indugia più che nella versione su disco sul verso “beer, thank you”, come a sottolineare che un drink potrebbe aiutarlo a rilassarsi. Segue “Javelin Unlanding”, semplicemente splendida. Il sound nella dimensione live è più ruvido rispetto a quello elegante e “composto” che si apprezza su disco: la strumentazione ridotta all’osso, oltre a feedback, riverberi e dilatazioni danno un tocco più “rock” e arricchiscono di tensione anche le canzoni apparentemente più sommesse.
“Dress Sexy at My Funeral” è l’unica “concessione” al repertorio firmato “Smog”, “America!” è un lungo viaggio country-funk-rock in acido, mentre la cover di “Please Send me Someone to Love” di Percy Mayfield suona come un omaggio alla tradizione americana “black” (la cui influenza è evidente soprattutto negli ultimi dischi). E se “Too many birds” mette in luce il suo lato più poetico, nella coda di “Winter Road”, il pezzo finale, Callahan mostra al pubblico la capacità di riuscire anche a prendersi con leggerezza, improvvisando una serie di rime sulla regina Victoria (e sul suo pessimo aspetto fisico). Non so se Bill Callahan sia davvero l’erede di Leonard Cohen (come molti giornalisti sentenziano) ma sicuramente l’incertezza, l’approssimazione lo-fi e – diciamolo – l’alone di sfiga e depressione che accompagnavano il personaggio-Smog, non appartengono più a questo signore quasi cinquantenne in camicia a quadri, che con la sua chitarra, la sua armonica e la sua splendida voce baritonale, stasera è riuscito a tenere col fiato sospeso duemilacinquecento persone.
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autore: Daniele Lama