Nella prima metà degli anni settanta i Can sono stati tra le massime espressioni della libertà in musica. Essi provenivano dal mondo del fre jazz, dall’avanguardia, dall’elettronica concepita secondo i precetti di Stockhausen. Alla voce dei tedeschi vi era lo scultore americano Malcom Mooney. Quando quest’ultimo decide di ritornare negli USA per curarsi la mente, i nostri incontrano accidentalmente a Monaco Damo Suzuki (nella foto), performer di strada e gli chiedono se quella sera ha voglia di esibirsi con loro.
Damo non ha di meglio da fare e dice di si; quell’evento è ancora oggi ricordato nella cosmogonia del rock, con quel monaco samurai che in uno stato di trance ipnotica declama ininterrottamente versi e parole dal dubbio significato per una platea spaventata, entusiasta, atterrita, eccitata. Si dice che tra il pubblico ci fosse anche la star hollywoodiana David Niven che restò fino alla fine dell’esecuzione. Dopo il quarto album, nel 1974 Damo Suzuki lascia i Can. Lo ritroveremo di nuovo sulle scene musicali solo dieci anni dopo. Nel frattempo si offrono candidature spontanee alla voce dei Can: una è quella di John Lydon. Ma un ulteriore e massimo attestato di stima da parte di quel mondo punk viene dai Fall che intitolano un brano I’m Damo Suzuki.
Suzuki lasciò la scena per ragioni spirituali, voleva ritrovare sè stesso ed incontrò Geova. Arriva il cancro ma non può operarsi, perchè i testimoni di Geova non possono. Poi però si opera, altrimenti muore e ritornando alla vita ritrova la musica.
Damo Suzuki oggi è in tour, il NeverEnding Tour, fantastica e rivoluzionaria idea in musica che dura da decenni. Consiste nel suonare musica automatica, istantanea, impro, con musicisti dotati della capacità di annullare il proprio ego per fondersi in questo flusso libero di suono che deve arrivare al pubblico senza le mediazioni tipiche dello show-biz e ritornare al palco sotto forma di energia.
Feeling collettivo insomma. O almeno questo è quello che credo di aver compreso. Sul percorso di andata (palco-pubblico) posso giurare che è andata così; su quello di ritorno (pubblico-palco) non garantisco.
Con il suo NeverEnding Tour, Damo Suzuki condivide ogni anno il palco con circa 400 musicisti in tutti e cinque i continenti, inutile quindi citare trascorsi o collaborazioni particolari poichè la cosa di per sè non avrebbe nessun valore. Importante però è l’apprezzamento per l’Italia in cui il nostro sembra trovare ottima accoglienza considerando che dall’esperienza Metak Network con Zu e Xabier Iriondo ne è nato un lavoro pubblicato dalla Wallace records di Mirko Spino.
Nomi ed etichette indubbiamente legate ad un underground ostico ed a volte anche un pò pretenzioso, ma vero solo a metà se consideriamo che stasera in cabina di controllo c’è persino Manuel Agnelli al piano elettrico, oltre al già citato Xabier Iriondo (che è un pò l’anello della catena che lega gli Afterhours alle esperienze più sperimentali già citate), chitarra e metak, Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35) ai fiati e Cristiano Calcagnile alla batteria, anch’egli proveniente dall’impro-jazz.
L’inizio dello show con il solo Suzuki completamente perso nel suo microfono è l’intro che conferma la leggenda sulle capacità sciamaniche del giapponese: se fosse tutto così, sarebbe di una noia mortale. Ma bastano pochi minuti a dissipare il nostro scetticismo e la nostra annoiata e saccente indifferenza poichè con l’arrivo degli altri gregari sul palco, nell’arco di pochi giri veniamo travolti dal ‘motorik’ di krautiane memorie.
Non è solo l’essenza ritmica del batterista ma è anche l’uso del metak che – più che chitarra da tavolo – è un tagliere che affetta le onde sonore e le nostre sinapsi, essendo dotato, oltre che di legno e metallo, anche di componenti analogici interni very vintage (oscillatore e fuzz a detta dell’italo-basco) e che può essere suonato in modi differenti, percosso con le mani o suonato con un archetto, per esempio.
La fine di questa prima esecuzione ci lascia increduli per un mondo che credevamo perduto tra la polvere di scaffali di vinile e vecchi articoli di decrepiti giornalisti barbuti sulla ‘kosmische musik‘ dei seventies crucchi.
Difficile da ora in poi ordinare le nostre impressioni secondo una sequenzialità canonica, impossibile un track by track visto il fluire e l’invadere continuo di un brano nell’altro, ove mai si potesse ancor parlare di brani. Ma di certo alcuni momenti restano fortemente impressi, come all’arrivo di Gabrielli in cui l’utilizzo estremo di un flauto ci conduce in una sorta di ‘esotico ultraterreno’, coadiuvato in questo anche da una reiterazione di scale escheriane da parte del nostro Manuel Agnelli, assolutamente defilato all’estremità del palco dietro la sua tastiera: qualcosa di psichedelico senza essere lisergico.
Ed ancora Gabrielli che prelude ad uno dei momenti più alti della serata, con il suo sax basso: le prime due o tre note alla Miles Davis, notturne e cool, le successive alla Albert Ayler, cioè sì ‘free’, ma colme di quella spiritualità che necessita di aggettivarsi autoreferenziandosi, cioè ‘ayleriana’, poi un magma di note basse, bassissime, al limite del distorto. La voce di Suzuki, il suo ‘pregarsi’ addosso va a nozze con le tentazioni drone di Iriondo, con la poderosa macchina ritmica di Calcagnile che – giuro – ho visto suonare il charlie con un archetto da violoncello, con l’insistente minimalismo elettrico di Agnelli.
Sembrava una cosa tra i Morphine, Tom Waits, Scott Walker (beh sì, non è che non ci fosse anche un pò di sano dolore in tutto ciò) e Captain Beefheart.
Poi le tracce non si spezzano quasi più e il fluire ‘free-form’ – che è difficile da immaginare così ‘free’ poichè è così tutto dannatamente al suo posto, organico, coeso e funzionale per le mie orecchie – prosegue più o meno con gli stessi duemila ingredienti e suoni, differenziando i momenti soprattutto per l’alternanza di stati di immensa quiete a quelli di elevata tensione.
C’è anche il tempo per un bis veloce che si concretizza in un letale assalto ritmico sonoro. Poi i saluti e i ringraziamenti: Damo è sorridente e sembra quello giovane, Agnelli sembra distrutto.
Frammento di conversazione all’uscita tra due ragazze poco più che adolescenti: ‘si mi è piaciuto, ma la voce non tanto’.
Autore: A. Giulio Magliulo
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