Autore quest’anno di un bel disco d’esordio solista, intitolato ‘C’è un Me Dentro di Me’, il cantautore Giovanni Truppi, napoletano, romano d’adozione, porta una ventata di originalità nella musica pop italiana, pur non essendo necessariamente un innovatore. L’originalità sta soprattutto nel rifiutare i modelli stranieri imperanti nell’indie rock, nel comunicare con sincerità, e nel sovvertire i punti di vista sulle cose, con effetti talvolta divertenti, talvolta anche commuoventi.
Sei attivo come musicista da diversi anni, eri ne Le Baccanti, e in questo 2010 giungi alla pubblicazione del tuo primo album solista, intitolato ‘C’è un Me Dentro di Me’; ci vuoi raccontare qualcosa riguardo la genesi di questo tuo lavoro?
La fine dell’esperienza con Le Baccanti è coincisa con la fine di un’era della mia vita.
Come spesso accade in questi casi, ho passato molto tempo a rifondare me stesso: da un sacco di punti di vista. In parole povere, mi sono chiuso in casa per un po’. Tralaltro a Roma, dove mi ero appena trasferito.
E mi sono ritrovato a lavorare per la prima volta completamente da solo alla musica che scrivevo, confrontandomi con l’esigenza – dettata dal contingente – di far “funzionare” le mie canzoni solo con la chitarra o il piano. Questo è servito molto per focalizzare l’attenzione su degli aspetti compositivi che prima guardavo con più superficialità. “C’è un me dentro di me” è il risultato di questo lavoro e di quel periodo. E dell’applicazione delle cose che imparavo man mano, su brani vecchi e nuovi.
Qual è stata l’accoglienza del disco? sei soddisfatto?
Trattandosi di un disco autoprodotto, pubblicato da una piccola etichetta, sono molto soddisfatto. La maggioranza delle critiche uscite su giornali e web è positiva, e le copie sono praticamente esaurite.
Hai avuto una lunga serie di date live, nell’ultimo anno, culminata con un’esibizione a New York. Vuoi parlarcene?
Eh, è stato molto bello… Sia tornare a fare concerti in giro, che andare a finire a NY. In realtà non è stata la prima volta che ho suonato lì: Marco Buccelli – che è il batterista di “C’è un Me Dentro di Me”, nonchè la mia band (suoniamo in duo) – a New York ci vive, quindi ci era già capitato di approfittare di questo e fare dei concerti negli Stati Uniti.
La cosa bella è che dato che ovviamente Marco lì collabora con diversi musicisti, ho avuto la possibilità di conoscerne alcuni e di suonare con loro, per esempio Dana Colley e Geoff Farina.
Quest’estate ero a New York per la preproduzione del nuovo disco, e quindi ho fatto un po’ di concerti (in realtà non è stata una sola data) con lui e Xenia Rubinos, una cantautrice americana bravissima con cui Marco suona.
Che ti devo dire: come puoi immaginare io arrivo con un complesso di inferiorità pazzesco! …poi non conosco bene l’inglese, quindi pure a fare le ordinazioni al bar mi stresso! E trovarsi a Brooklyn, a Bed Stuy, nell’auditorium di una piccola radio dove gli unici bianchi eravamo io e Marco, a cantare le mie canzoni o le canzoni classiche napoletane (a volte ne mettiamo una o due in scaletta) e vedere la gente che balla e che dopo ti viene a fare un sacco di complimenti è proprio una bella sensazione.
Il videoclip di ‘Respiro’, canzone contenuta nel disco, è molto carino. si vede che è stato realizzato con grande cura, e direi anche con amore. Direi che esprime la vivacità e la positività che attraversano tutto il disco. Vi siete divertiti a girarlo?
Ci siamo molto divertiti, ma è stata un’ammazzata pazzesca.
Con tutto che avevamo cercato di sviluppare un’idea partendo anche dal fatto che dovesse essere semplice da realizzare, ci siamo trovati a fronteggiare tempi strettissimi ed impevisti vari.
Mi fa piacere che parli di amore: io cerco di usare poco questa parola, ma anche a me viene in mente a proposito di questo lavoro. Se non fosse stato per l’amore che tutta la troupe ci ha dedicato, il videoclip di “Respiro” non sarebbe così.
Vorrei chiederti che valore ha per te la famiglia, perché mi pare un concetto che ritorna spesso nei testi delle canzoni di C’è un Me Dentro di Me; mettere su famiglia, fare figli…
La famiglia mi fa pensare ad alcune molto belle, e ad un sacco di cose molto brutte. Come la coppia, di cui secondo una certa ideologia la famiglia è l’estensione. Fino ad arrivare alle comunità più allargate.
Quando ne parlo nelle canzoni, il concetto di famiglia è posto come utopia, come miraggio. Appunto come estensione e diretta conseguenza dell’amore per una persona: amore/famiglia/figli/evisseropersemprefeliciecontenti.
E’ una equazione ed una visione ovviamente da “mulino bianco”, di cui ovviamente non trovo riscontro nella realtà che mi circonda (tantomeno nella mia vita), ma alla quale in genere veniamo educati fin da piccoli (con tutti gli equivoci annessi, e il carico di dolore che ne cosegue).
Però io non sono così emancipato da non sentire mai il richiamo di questa visione dentro di me nei momenti di abbandono, belli o brutti che siano. Dunque me la ritrovo nelle canzoni, quando questi momenti provo a descriverli.
‘Mario’ è una canzone in cui mi pare ci sia sintetizzato un punto di vista preciso sulla vita, oggi probabilmente minoritario, in un Mondo votato al mito della produzione. Tu personalmente riesci a vivere gioiendo delle piccole cose, senza pianificare, senza ambizioni? cosa pensi dei talent show televisivi?
Assolutamente sono anch’io votato al mito della produzione! E un po’ scherzo, ma un po’ no.
Come hai detto, “Mario” è un punto di vista. Con il quale mi piace e mi serve, sempre, confortarmi. Ma che non è – almeno non “in toto” – il mio.
Tanto per cominciare, al di là di quello che posso pensare in generale, faccio un mestiere che per forza di cose ti obbliga ad avere delle ambizioni, nel senso che o lo eserciti a certi livelli oppure devi fare un altro mestiere.
E questo – ma non so se viene prima l’uovo o la gallina – sicuramente influenza i miei atteggiamenti in generale. E quindi sì, anche a livello personale, ho qualche ostacolo nel godermi le piccole cose. E di questo mi dispiace.
Però la canzone in realtà contemporaneamente parla di seguire se stessi, e se – come nel caso della canzone – seguire se stessi vuol dire andarsi a cercare giorno per giorno delle cose di cui gioire, allora ‘ste cose non sono più nemmeno tanto piccole!
E poi scusami il paradosso, ma credo che anche decidere di vivere senza pianificare, di esperienze giornaliere, sia una grossa ambizione. Che implica un bel prezzo da pagare, se non si è proprio dei fricchettoni spensierati. In realtà io volevo parlare di non fare le cose “comode”.
Per quanto riguarda i talent show: mi piacerebbe che noi tutti che ci occupiamo di musica in un altro modo non sprecassimo un bricolo di energia né una goccia di inchiostro sull’argomento. Quello che penso a riguardo credo di esprimerlo facendo musica nel mio modo: altro, per me, vorrebbe dire lamentarmi. E non mi va.
Tra l’altro il problema non mi pare siano i talent show: ci sono tante persone che stimo che li vedono e si divertono, ma poi ascoltano De André o i Radiohead.
Il problema è l’equivoco che dai talent show si crea o il fatto che altre cose non abbiano visibilità, ma quello deriva dal sistema in cui viviamo e non cambierebbe di una virgola se semplicemente si eliminassero.
Poi c’è di buono che i talent show fanno venire voglia di studiare canto ad un sacco di persone, dando così lavoro ad un sacco di cantanti poveri che fanno la musica bella!
Ascolti molta musica? Direi che sei un autore abbastanza calato nella musica italiana, malgrado nelle tue musiche c’è anche tanto blues e jazz, anche grazie agli strumenti a fiato.
Io sono una vergogna e ascolto pochissima musica. Da sempre. Non ho proprio mai avuto nemmeno il fatto da adolescente di mettermi nella cameretta ad ascoltare musica. Purtroppo è così.
Ovviamente cerco di conoscere più musica che posso, di studiare quella che mi interessa.
Ma come ascoltatore sono una frana, e quando è solo per il mio piacere sento quasi sempre le stesse cose e quasi sempre – se è roba dove c’è un cantante – musica in italiano. O la “Napoletana” di Murolo, spessissimo.
Autore: Fausto Turi
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