E anche questa edizione del Neapolis Festival è finita, la decima, ebbene sì, la prima edizione ci fu dieci anni fa, e chi lo avrebbe mai detto che, tra cambi di location e problemi organizzativi, si sarebbe arrivati fino a questo punto.
Naturalmente anche quest’anno non sono mancati i problemi, secondo tradizione: i Liars, uno dei gruppi più attesi di questa edizione, hanno annullato tutto il tour europeo causa lutto familiare, e a Napoli non ci sono mai arrivati… Peccato!
Ma basta cianciare inutilmente e passiamo alla musica.
Gli Eels, uno dei gruppi di punta della prima giornata del festival, danno l’impressione di essere una band di low-fi rock solidissima, altamente coinvolgente, divertente, rassicurante, ma lontana dai propri tempi eroici. Sembrano infatti, dietro arrangiamenti non sempre all’altezza della situazione, aver smarrito la propria vena morbosa e surreale, aver smarrito il dramma, mantenendosi nel limbo in cui galleggia la maggior parte delle rockband, fatto di musica affatto disprezzabile ma senza troppo da dire.
Il talento pop della band di Los Angeles si spreca in ballate zoppicanti che richiamano alternativamente i REM e gli U2, così come molte altre formazioni che fanno della rassicurante solidità del due chitarre e batteria il loro marchio di fabbrica. L’eco dei loro capolavori (Beautiful Freak, Electro-Shock Blues, Daisies Of The Galaxy) si avverte ancora, ma stavolta la musica è molto meno dissacrante, forse per un’attenzione eccessiva allo styling, al risultare trasandati e stralunati al punto giusto; il punto di forza dell’esibizione sta infatti nell’attività del muscolosissimo sicofante che, con indosso la sua t-shirt della security, gironzola(va) per il palco esprimendosi in esibizioni muscolari, o stando semplicemente fermo, per minuti interi. Trovando il tempo, di tanto in tanto, di suonare le percussioni o le tastiere.
A onor del vero, un’esibizione comunque di altissimo livello, appassionata, di compattezza e pathos invidiabili, e molto apprezzata dal pubblico.
Mentre sul palco “grande” si esibiscono gli Eels sul palco elettronico c’è intanto Tying Tiffany, altra suicide girl italiana (dopo Miss Violetta Beauregarde) che si è dedicata anima e corpo (e che corpo!) alla musica (ma pare che questi non siano i suoi primi passi, comunque).
Tranne che per delle espadrillas rosse e delle calzette a righe verdi e blu Tiffany è tutta di nero vestita: un pantacollant, una canottiera trasparente e un wonderbra in bella mostra; un caschetto nero a incorniciarle il pallido viso. La sua musica è elettronica, tra gli ADULT. e Le Tigre, ma più punk, più punk di tante altre band “analogiche” in circolazione; per la quarantina di minuti per cui si concede (suonerà quasi tutto il suo album d’esordio, più Io Sto Bene dei grandissimi CCCP!!!) Tiffany non si risparmia per niente, e ci dimostra per bene come dovrebbe essere un concerto: movimento, sudore, capacità di trascinare il pubblico, di farlo divertire.
Peccato che siano in pochi a godersi questo concerto ma, come si dice, a ognuno il suo.
A fine concerto Tiffany si dimostrerà più che disponibile a scambiare quattro chiacchiere e fare qualche foto… Ma non le foto che ti aspetteresti da una suicide girl, asciugate la bavetta quindi.
Dopo Tiffany si torna all’altro palco dov’è il turno dei dEUS, i quali imbastiscono un’esibizione di classe cristallina: del dissacrante periodo art-rock quali eredi di Zappa e Cabaret Voltaire è rimasto un imprinting da grande band.
Miscelando i classici della decostruzione pop di The Ideal Crash a lavori più recenti, o ancora in cantiere, anche in questa data partenopea il quintetto belga dimostra tatto, amalgama, sensibilità, gusto.
Il feedback delle chitarre è ago della bilancia tra evocazione del tempo che fu e dichiarazione di nuovi equilibri miscelati a riff irresistibili (ma mai ammiccanti, anzi asciutti e dissonanti), a sinuosi tappeti di violino, a una sessione ritmica lucidissima, a cantati intrecciati che non perdono la loro dichiarata complessità anche nelle canzoni d’amore che chiudono il concerto con dolcezza.
Della perturbazione della forma canzone i dEUS hanno fatto la propria ragione estetica, questo è quanto si evince dall’esibizione più ricercata dell’intero festival.
Il primo giorno del Neapolis si conclude infine di notte, con i dj italiani Peedoo e Santos e l’acclamatissimo Tiga.
Ma… ci siamo dimenticati del pomeriggio!
I Baustelle abbronzati e in tenuta estiva, confermano di avere ancora un bel po’ di strada da fare, prima di riuscire finalmente a riproporre in pieno l’intensità di cui sono capaci su disco. Un live in ogni caso molto applaudito. Da segnalare alcuni splendidi “ripescaggi” dai primi dischi, come la bellissima “Le vacanze dell’83”. I Robocop Kraus sono carini e coinvolgenti, non particolarmente originale e forse a tratti un po’ monotoni. Ma hanno una carica sul palco di gran lunga superiore ai tanti gruppetti post-punk usciti fuori negli ultimi anni. Athebustop (la one-man band del cantante/chitarrista Claudio Donzelli), uno dei vincitori di “Destinazione Neapolis”, il contest per artisti emergenti legato al festival, nonostante il sole ancora alto, è riuscito a far emozionare i presenti col suo folk-rock delicato, dalle melodie memorabili.
Sull’electro stage, in prima serata, il live di Schneider Tm, funestato purtroppo da problemi tecnici (il concerto, sospeso, è stato ripreso dopo una lunga pausa), è stato all’altezza delle aspettative: diavolerie elettroniche e strumenti acustici a servizio della melodia, ironia e contaminazione.
Il secondo giorno del Neapolis invece è per i vecchietti, e questo dimostra come il Neapolis sia un festival per tutti: giovani e vecchi, maschietti e femminucce; ma oggi vecchietti in particolare, si diceva: Robert Plant (& The Strange Sensation) e Carlos Santana sono lì proprio per loro, come dinosauri immarcescibili a qualunque catastrofe li aspettano nell’Arena, e infatti fin dal primo pomeriggio l’arena inizierà a riempirsi di nostalgici, ma anche di ragazzini alle prime armi con la musica.
Il tono è scherzoso, non ve la prendete, ché tutti da adolescenti abbiamo ascoltato Santana e Led Zeppelin, questo si sa, il punto è che poi si dovrebbe anche andare avanti, ma questo è un altro discorso, è meglio fermarsi qui prima di iniziare a litigare.
Santana e Robert Plant comunque fanno il loro dovere e donano ai convenuti proprio il concerto che si aspettano, ovvero due ore (e più) di musica, bis, assoli sboroni, eccetera eccetera. Per tutte e due non mancano cavalli di battaglia come Samba Pa Ti e Whole Lotta Love… Tutto molto bello sì, ma da queste parti è altro quello che si chiede alla musica e a darci questo altro ci penserà lo zio Iggy.
Sì perché Iggy sarà pure vecchio, sarà pure passato (?!?), ma sul palco è una bestia e sembra sempre lì lì per venire.
Come fa sul palco a fare quello che fa alla sua età? Deve aver fatto un patto col Diavolo, sicuro.
La biondo-crinita iguana, tiratissima e anfetaminica, non si risparmia: corre, urla, si agita epilettico, balla, si scopa l’amplificatore, sputa e ricambia gli sputi, si versa intere bottiglie d’acqua minerale in testa… lo sciancato Iggy, com’è sua abitudine, si denuda anche, quasi completamente, mostrandoci un culo flaccido e pendente.
Un bel po’ di persone potranno dire di aver visto Iggy da vicino poi, dato che il nostro arzillo nonnetto durante No Fun inviterà tutti a ballare con i “suoi” Stooges, esatto, proprio sopra al palco, salite pure, avete capito bene. Punk e bestie di ogni specie non se lo faranno ripetere due volte e il palco rimarrà ingombro di individui danzanti per un bel po’, esagitati energumeni della “security” massacreranno simpaticamente a colpi di cinghia un paio di persone per questo… «Fascisti!!!», urlerà loro il mitico.
Si può dire che insieme a quello di Tying Tiffany, questo è stato il concerto più adrenalinico dell’intero festival, quello per cui è valso pagare il biglietto; il concerto scorre bene e i pezzi suonati sono presi soprattutto dai primi due album degli Stooges… Nota curiosa: la scaletta in pratica era un foglio A3 con le scritte a carattere tipo 50!!!
E sì, la vecchiaia è pur sempre la vecchiaia, e un appesantito Ron Asheton è proprio lì a dimostrarcelo; Iggy naturalmente è l’eccezione, ma il (leggendario) bassista Mike Watt non è certo da meno.
La giornata si conclude, come il giorno precedente, al palco elettronico: il bel set del napoletano Madox (aka Stefano Miele), The Glimmers (ultra-danzerecci e divertentissimi), un Howie B danzerino che davanti a un ormai piccolo gruppo di irriducibili dispensa l’arte sopraffina del taglia-e-cuci vinilico.
Ma nel secondo giorno – sempre sull’electro-stage – ci sono stati anche i grandissimi Mouse On Mars, con un live-set preciso ed energico (peccato per il pubblico molto esiguo) e il delirante Jason Forrest aka Donna Summer, che, in maglietta dei Black Sabbath, è stato capace di fare headbanging+airguitar per tutto il tempo del suo laptop (un mac semi-distrutto funzionante per miracolo)-set.
Da segnalare, ancora: l’intenso, emozionante live di Francesco Di Bella (in “libera uscita” dai suoi 24 Grana), capace di trasportare i presenti in un viaggio sonoro che tocca i generi più disparati (dal folk al country, dal rock “classico” ai lievi accenni reggae, dallo swing-jazz al cantautorato più raffinato). E poi ancora, gli emergenti Atari, da Napoli (anche loro selezionati da “Destinazione Neapolis”), interessantissimi nella loro musica electro-rock vestiti da Mario Bros. (ma insomma, decidiamoci: Atari, o Nintendo?), e infine Jolaurlo, da Bari, interessanti pure loro con il loro mix punk/reggae.
Dei Liars annullati (sigh sob) si è già detto in apertura.
Nel terzo giorno del festival quello che subito colpisce l’occhio è la presenza di parecchi genitori di mezz’età che hanno accompagnato i propri pargoli (bambini!!! bambini!!!) a vedere questo tanto osannato Fabri Fibra (bambini con magliette originali di Fabri Fibra!!!), e questo assai artificioso (e anche un po’ ridicolo, eh) Mondo Marcio; li noti tra il pubblico, accanto alla figliolanza, questi genitori, e loro non è che se ne stanno tranquilli o in disparte no, loro ballano pure. Tristezza. Paura.
Un’altra categoria sociale che colpisce, a questo concerto, è quella del bboy/flygirl-punk/tossicodipendente, sinceramente non la si era mai vista.
Ah queste generazioni moderne, sempre piene di sorprese.
Comunque tra Mondo Marcio e Fabri Fibra quello che vince (ma poi perché non hanno avuto le palle di sfidarsi in una vera e propria gara di freestyle?) è sicuramente Fibra: almeno lui ha alle spalle un dj competente, ovvero (Big) Fish, ex-Sottotono. Sul palco Fabri è coadiuvato da altri due tizi, i Fobici Vacca e Neslie (fratello di Fabri), che gli fanno i cori ed esaltano il pubblico.
I Fobici hanno cantato il primo pezzo con maschere di cuoio nero. Mitici.
Le rime di Fabri Fibra hanno una proporzione di cinque parolacce a una parola normale, più o meno, e mentre lui rappa i genitori eccoli lì, tutti contenti che ballano insieme ai figli, mah. Forse i moralisti bacucchi siamo noi.
Alla fine dei conti, relativamente parlando, questo Fabri Fibra non è male, e comunque è (sembra) sincero, come (ci) dimostra (con) il discorsetto morale che fa a fine concerto (lui fa hip-hop da dieci anni! mica è nato con la tivvì).
Mentre Mondo Marcio con aiutante e dj baby al seguito, nel suo scimmiottare modelli smaccatamente americani, si rivela piuttosto ridicolo (appunto) e insostenibile: già il gangsta americano era una palla, non abbiamo certo bisogno della relativa versione italiana. Con più o meno dieci anni di ritardo, per giunta.
Ottima, per presenza e musica, si dimostra invece la napoletana Alea che, anche se non si capisce bene quello che canta (e questo è un po’ una pecca per un/a rapper…), acchiappa però, sarà perché canta di una realtà più vicina a noi (ovvero l’ormai scontata et onnipresente Scampia and so on). Naturalmente la maggior parte degli spettatori, indottrinati musicalmente dalla televisione, non le presta la minima attenzione.
Nel (caldissimo) pomeriggio suonano le ultime due band di “Destinazione Neapolis” in programma: Stoop e Fragment, entrambe protagoniste di ottime performance! I primi suonano un rock compatto, con un sound accattivante e groove divertenti e coinvolgenti, i secondi sono degli ottimi interpreti dell’indie rock chitarristico più obliquo e spigoloso, ma con una notevole capacità di proporre splendide melodie. Sul “Metropolitan Stage” si esibiscono anche i Califfo Deluxe con il loro ska/reggae/rock, che è ormai un genere abbastanza diffuso, sono stati anche “trascinanti”, ma sicuramente non originali; infine i poveri Scaramouche, poveri perché hanno avuto la sfortuna di esibirsi sul palco piccolo mentre in arena suonava Jovanotti, quindi a vederli c’erano solo i fantasmi e i panini napoletani, pure abbastanza tiepidi c’è da dire. Questa è la dura legge dei festival: concerti in contemporanea.
Comunque da lontano la loro musica sembrava assomigliare a quella dei Modena City Ramblers (…), e a questo punto si può anche passare all’arena.
Il concerto di Jovanotti è, come sempre, una scarica di energia vitale. Abbandonando le epiche cavalcate etno e le lunghe jam jazzistiche dei tempi andati, i brani di quest’ora e quaranta di dancefloor sono dei veri e propri frammenti elettrici, frammenti che scorrono ed esplodono, uno dietro l’altro, senza respiro. La scelta dei brani è di grandissimo gusto, volutamente selezionati per essere assemblati in un unico meta-brano in cui, per esempio, si fondono il brano-manifesto Penso Positivo con la più recente bomba ritmica Falla Girare.
Un concerto che brilla dell’elettricità degli schermi luminosi dai colori vividissimi posti in background, che brilla dell’energia ipercinetica del suo performer, che brilla dell’elettricità e dell’elettronica degli arrangiamenti, in cui i fiati e buona parte degli strumenti acustici viene sostituita da synth, campionatori, vocoder, piatti, tutto l’armamentario da dj insomma, per un suono finalmente fiero di essere sintetico, di miscelare la componente umana, così esplosiva in Jovanotti, alla macchina. Complice basso e batteria perennemente presenti in pancia a simulare il battito vitale si balla senza sosta, allo show di un’artista mai inquadrabile, un battitore libero all’apice della maturità.
La serata si conclude con Roy Paci & Aretuska, sul Metropolitan Stage, si conclude con gli irriducibili che vogliono godersi fino all’ultima nota naturalmente, e no, niente palco elettronico questa sera, cioè, questa notte.
Roy non è in forma, ha la voce bassa si scusa, e il gruppo è cambiato, ancora una volta, qualcuno se n’è andato, qualcuno è entrato, e Roy canta comunque troppo ultimamente, e suona troppo poco. Sotto il palco il pubblico balla lo stesso però sembra che, rispetto agli inizi incendiari quando suonavano uno ska classicissimo, qualcosa Roy Paci e gli Aretuska col passare del tempo l’hanno perso.
Il concerto dura poco e si torna a casa, un pochetto più tristi (si fa per dire) perché un altro festival è finito e ci toccherà aspettare chissà quanto per vedere un qualcosa di decente, dritti e consapevoli in braccio a questa nuova ennesima estate ricca sfondata di musica etno-posticcia d’accatto, tormentoni commerciali stracciapalle e squallidissimi et inutili revival anni ’80.
Felice estate a tutti.
Autore: Lucio Carbonelli e Pasquale Napolitano
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