Bentornati, Pere Ubu! Dopo un’assenza dai palchi italici di ben nove anni, escludendo la comparsata a Vicenza dello scorso ottobre, la storica band di Cleveland apre il doppio evento di questa sera al Circolo. E non potrebbe esserci momento migliore: il recente Why I Hate Women e il coinvolgimento di David Thomas nella reunion dei Rocket from the Tombs hanno ridato al gruppo uno spirito garage paragonabile forse solo a quello degli albori della sua trentennale carriera, e particolarmente apprezzabile dimensione live. Parrebbe quasi di assistere ad uno show di un gruppo fresco di contratto discografico, non fosse per l’evidente aspetto attempato dei musicisti (batterista a parte: il giovane neo-acquisto Steve Mehlmann – ciuffettone dark e energia da vendere – non sfigurerebbe in uno dei tanti gruppi nu-wave che oggi godono di maggiore popolarità), e per i marchi di fabbrica della band, ovvero l’inconfondibile vocione di David e i rumorismi di Robert Wheeler. Quest’ultimo, nonostante si ritrovi senza i suoi synth (“prendetevela con la British Airways” – precisa David – “che glie li ha smarriti”) offre l’esibizione visivamente e acusticamente più affascinante, maneggiando il theremin con movenze da sciamano indemoniato senza un attimo di pausa. Il mastodontico frontman, dal canto suo, racconta di improbabili discussioni avute con Elvis (?) durante una delle tante “micro-canzoni” – chiamarli discorsi sarebbe fuorviante, vista la loro atipicità – che improvvisa tra un pezzo e l’altro, ammonisce di continuo il fonico a causa di presunti problemi del suono, arrivando a minacciare di tagliargli la gola (!), tracanna senza sosta birra e whisky dal suo fiaschetto personale, e ovviamente delizia i presenti col suo canto nevrotico e bizzarro.
La scaletta è, come prevedibile, in gran parte composta da brani dell’ultimo album, ma non mancano incursioni nella discografia recente (l’iniziale Slow Walking Daddy, Phone Home Jonah, Folly of Youth e la stupenda SAD.TXT, in uno dei rari momenti rilassati del concerto) e meno recente della band: una versione “rivisitata” di The Modern Dance, durante la quale il folto pubblico si unisce al chitarrista Keith Moliné (altra new entry, ma già compagno di David nei Two Pale Boys) e alla bassista Michele Temple nell’intonare il leggendario refrain “merdre, merdre”, e, nei bis, le classiche Final Solution e Street Waves.
Cambio di set, Mick Harvey e la sua band si apprestano a salire sul palco. Nel giardino al di fuori del locale David firma autografi, posa per foto e vende CD ai fan. Ad un amico, indeciso se acquistare o meno il disco di remix appena uscito, propone la formula “soddisfatti o rimborsati”: se non dovesse piacergli, riavrà i suoi soldi indietro al prossimo tour in Italia. Mr. Thomas, non aspetti altri nove anni per tornare a suonare da queste parti: il disco è bellissimo!
Non è facile tornare a vivere dopo un concerto dei Pere Ubu e quindi a Mick Harvey e soci tocca il non difficile compito di reinventare l’atmosfera del Circolo dopo la rovente sassaiola dell’enorme David Thomas, senza contare che l’ora tarda e la strumentazione semi-acustica non portano certo legna alla causa di un fuoco più intimo. Del resto i più, compreso il sottoscritto, erano lì per la band di Cleveland, ma “due piccioni con una fava”, da che mondo è mondo, rappresentano una proposta allettante, specialmente se sul palco, assieme al più longevo dei collaboratori di Nick Cave, prendono posto gente come Rosie Westbrook al contrabbasso e altri due Bad Seeds: James Johnston, che si divide tra organo e chitarra elettrica e Thomas Wydler dietro la batteria, ad alternare bacchette e spazzole, impeto e grazia. Dopo un inizio difficoltoso, cercando di vincere la distrazione generale (compresa quella del fonico…), il mood si fa decisamente cantautorale, di un cantautorato elegante, anche troppo per il palato dei presenti. Quando però Harvey incarna l’outsider, evocando il blues maledetto e l’epica tossica, spingendo la band verso acque scure e precipizi (Slow-motion-movie-star, scritta a quattro mani con P.J. Harvey, la Demon alcohol di Bambi Lee Savage), e il pubblico realizza di trovarsi al cospetto di tre semi cattivi, sorride sornione e scherza sfoggiando un perfetto italiano da viaggio. Scorrono in prevalenza tracce degli ultimi due lavori dell’australiano: il più convincente One man’s treasure e l’ultimo Two of diamonds, ballate agrodolci che omaggiano con autorevolezza, nell’ossimoro tra il registro romantico della voce e le tinte fosche dei paesaggi, il Guy Clark di Hank Williams said it best, il J.J. Walker di Louise, gli irriconoscibili Saints di Photograph. Il finale riserva una Intoxicated man, omaggio al compianto Gainsbourg (cui l’australiano ha fatto voti), l’impeccabile Out of time man dei Manonegra, e la constatazione, infine, che Mick Harvey convinca dal vivo – nonostante l’assenza degli archi – molto più che nei solchi dei suoi lavori discografici, dove, in tutta franchezza, ogni tanto lo sbadiglio prende il sopravvento. Merito di una band che, nonostante l’enorme mestiere, evita la trappola oleografica e batte i trafficati sentieri country-blues dall’altra parte della strada.
Autore: Daniele Mancino e Fabio Astore
www.ubuprojex.net – www.myspace.com/mickharvey