Inutile nasconderlo, per me i R.e.m. non sono un gruppo come tutti gli altri. Il primo CD che abbia mai comprato è “Murmur”. Al liceo c’avevo i testi di “You are the everything” e “Perfect circle” scritti sul diario, piuttosto che le solite, ridicole (per me, s’intende) citazioni di Jim Morrison. Quando mi sono connesso per la prima volta in vita mia a internet sono andato a cercare i misteriosi testi di Michael Stipe, perché in quel momento mi sembrava il modo più utile per utilizzare il web. Sono impazzito a recuperare i cd dei gruppi che la band coverizzava o citava nelle sue interviste (certo, oggi un disco dei Pylon ve lo fate recapitare a casa con un paio di click, ma quindici anni fa non era così semplice). Me li sono goduti in concerto più e più volte, e non dimenticherò mai il loro live a Catania, con i Radiohead di supporto e uno stadio intero con la pelle d’oca. Mi sono sentito un imbecille quando m’è capitato di stringere la mano a Stipe e non riuscire a proferire una parola. Nemmeno una sola, mentre avrei potuto parlargli per ore. Insomma, l’avete capito, i R.e.m. sono “il gruppo”, per me. E’ per questo che spero che questo sia il loro ultimo album. Perché davvero non potrei tollerare di assistere alla trasformazione definitiva di una band che ho amato tanto in un gruppo à la U2. Un gruppo che sforna con regolarità album di “mestiere”, mai troppo brutti per essere stroncati in malo modo, mai abbastanza belli da non far rimpiangere gli splendori del passato.
Una band di cinquantenni appagati e un po’ acidi (e leggendo un po’ di interviste recenti la sensazione è più o meno questa), impegnati a replicare sé stessi all’infinito, confezionando canzoni basate su cliché di cui magari potranno anche rivendicare la paternità, ma che sempre di cliché si tratta. Spero che “Collapse into now” sia il loro ultimo disco (e il titolo, e la foto di copertina con Stipe che sembra dire “addio a tutti” con la mano sembrano degli indizi in questo senso, o no?), ma questo non significa che sia un brutto disco, anzi. Semplicemente, ascoltandolo, si ha la sensazione di trovarsi davanti a una band un po’ stanca (come spiegarsi altrimenti il fatto che non è previsto alcun tour all’orizzonte?), assolutamente consapevole dei propri mezzi (Stipe può scrivere canzoni tra un cruciverba e l’altro seduto a bordo piscina che molti suoi colleghi sognano di scrivere in una vita intera senza riuscirci) eppure incapace di mettersi seriamente in discussione, anche a costo di lasciare interdetti i fan (il tanto discusso e bistrattato “Up” del ’98, ad esempio, era quantomeno coraggioso, rispetto a quest’ultimo lavoro).
I R.e.m. degli anni zero, a parte qualche slancio apprezzabile – il precedente “Accelerate” vedeva i nostri perlomeno vogliosi di fare un po’ di “rumore” – non saranno ricordati negli annali del rock, e il timore è che le cose possano solo peggiorare col passare degli anni.
“Collapse into now”, che come dicevamo non è un brutto disco, si presenta con una distribuzione piuttosto equa di brani dal piglio più rock e ballads. Nella prima categoria rientrano canzoni come l’opening track “Discoverer” (che difficilmente però diventerà un evergreen del repertorio dei nostri), la semplice ed efficace “All the best”, la divertente “Alligator_Aviator_Autopilot_Antimatter” (con Peaches ospite alla seconda voce), l’ottima, breve e super-catchy “That Someone Is You” (in cui sembra davvero rispolverata l’energia dei tempi che furono), la scintillante “Mine Smell Like Honey”, con lo splendido lavoro del bassista Mike Mills alla controvoce.
Nella seconda “schiera” di canzoni rientrano il singolo “Überlin”, col suo andamento rassicurante e placido; l’acustica “Oh My Heart”, che sembra una outtake di “Automatic For The People”; la splendida “It Happened Today”, tra le canzoni più riuscite del repertorio recente della band, che vede come ospiti tutt’altro che imprescindibili Eddie Vedder e Joel Gibb degli Hidden Cameras; l’emozionante, delicata “Me, Marlon Brando, Marlon Brando And I”; le trascurabili, alquanto insipide, “Every day is yours to win” e “Walk It Back; la conclusiva “Blue”, con Stipe alla voce recitante e Patti Smith come ospite, che sembra una versione ancora più cupa e sinistra di quella “E-Bow The Letter” che impreziosiva “New Adventures In Hi Fi” (1996).
Un lavoro da sufficienza piena. Troppo poco per una band che ha in repertorio alcune delle cose più belle mai ascoltate negli ultimi trent’anni. Ricordate quando a scuola si usava dire “il ragazzo ha le capacità ma non si impegna?”. Qui le capacità ci sono, eccome. E sono decisamente al di sopra della media, lo sanno anche i bambini. L’impegno ci sarà pure, in qualche modo. Ma è l’impegno degli impiegati, ormai. Non quello dei geni. E onestamente ce ne facciamo ben poco.
Autore: Daniele Lama
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