Giunto ormai al quarto album, ma con una infinità di collaborazioni importanti come chitarrista (The Witches, Artic Monkeys, Last Shadow Puppets) nonché con una carriera alle spalle con la band The Coral dal 1996 al 2008, Bill Ryder-Jones si presenta oggi come uno degli artisti più interessanti e innovativi della scenda underground. Perché riesce a essere underground e di nicchia pur portando con sé una sonorità che ha qualcosa di classico, di eterno, di senza tempo, che forse gli viene dall’amore per la musica classica, da lui sempre dichiarato. Yawn, per etichetta Domino, si insinua nel percorso già avviato con If, l’esordio strumentale che mette in musica il romanzo di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, e poi con i capolavori A Bad Wind Blows In My Heart nel 2013 e West Kirby County Primary nel 2015.
La Contea di West Kriby è presente, nelle suggestioni, anche in questo quarto disco, registrato e prodotto interamente da Bill, con la comparsa di The Orielles e Our Girl, alla voce, Rod Skip al violoncello e al mixer Craig Silvey (Portishead, The Horrors, Arcade Fire): è quella che ispira a Bill il tema del conforto, tema centrale del disco, sempre cercato e a portata di mano e tuttavia sfuggente.
Sebbene abbia dichiarato che “non voleva scrivere l’ennesima canzone sul mare”, tra le colline gallesi e la riva desolata nasce appunto Don’t be Scared, I Love You, che analizza il conforto ma anche la tempesta emotiva che una dichiarazione del genere può scatenare. Gli splendidi paesaggi di brughiera in cui ambienta il disco fanno quindi da sfondo per la ricerca di storie che raccontano emozioni primordiali, cantate e suonate con una musica che è primordiale anch’essa, veramente viscerale ed emotiva, dettata dalla sua voce profonda e evocativa, come si percepisce subito nella splendida introduzione di There’s Something On Your Mind.
La tempesta è evocata, con un sound post-rock alla Mogwai, in Time Will Be The Only Saviour, e qui la potenza lirica e melodica della architettura strumentale (complessissima) e della voce cavernosa di Bill si manifestano in tutto il loro splendore.
Recover, la canzone preferita di Ryder-Jones in questo disco, è costruita su un arpeggio di chitarra acustica su cui la voce di Bill si presenta a sussurrare, quasi una ninna nanna densa di profondi concetti a proposito di auto-preservazione e rimozione involontaria.
Mither è invece strutturata su una trama più convenzionale, e si ispira fortemente allo stile di Jeff Buckley, come pure il singolo And Then There’s You, che ritorna nell’intro sullo stile della cantilena sussurrata, che è poi quello preferito dall’autore in tutto il disco, per poi esplodere in un ritornello orecchiabile. E questo mix di atmosfere post rock e musica facilmente cantabile è decisamente la sua mossa vincente.
Bill Ryder-Jones è capace come pochi attualmente di mescolare classicità e sound amabile con soluzioni musicali complesse e lavoratissime, dense di preziosità tutte però ottenute con strumenti reali, tutti peraltro suonati dall’autore stesso. E in questo modo il polistrumentista cantautore inglese riesce di riportare in auge gli anni ’90, fra Buckley, i Radiohead dei primi due dischi, e i Mercury Rev, ovvero quel lato non troppo esplorato dei nineties dell’epoca del grunge, in cui alcuni artisti cercavano soluzioni musicali non troppo facili ma tuttavia melodiche e ispirate.
Su questa scia, ma anche ammiccando al post-rock e all’icelandic del terzo millennio (evocato per esempio in No One’s Trying to Kill You, e in John) Yawn acquisisce il valore di vero capolavoro, perfetto crocevia fra generi e epoche musicali, consacrando, ammesso che ce ne fosse bisogno, la musica di Bill Ryder Jones dopo gli acclamati successi dei precedenti due dischi.
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autore: Francesco Postiglione