Premessa:
Questa è una recensione sul nuovo disco dei Maccabees, che si chiama Given to the wild ed è uscito ufficialmente il nove gennaio 2012 per la Copperative Music, e occhei. Adesso che ho messo in chiaro le cose posso anche permettermi un’affermazione: Suck it and See degli Arctic Monkeys è stato senza dubbio il disco più completo, bello e riuscito del passato 2011. Considerate questa equazione semplice: i Maccabees stanno al 2012 come gli Arctic Monkeys stanno al 2011. Ci siete? Ecco, da questa analisi, signori, ne esce fuori una visibile incongruenza che andrò a spiegarvi nelle seguenti righe.
Svolgimento:
Ho dovuto ascoltarlo più e più volte questo nuovo disco dei Maccabei, giovini inglesini che nell’ambito della dozzinale scena indie degli ultimi anni sono riusciti a farsi notare un po’ più degli altri. Ho voluto ascoltarlo bene, perché il terzo disco in genere coincide con una maturazione importante. Con le chitarrine ci hanno pure giocato bene, agli esordi, tanto che NME nel 2009 li aveva relegati al ventiquattresimo posto nella classifica degli album migliori dell’anno con Wall of Arms (il singolo It’s only love aveva consumato le mie cuffie).
Appena si entra in Given to the Wild però si nota subito il grande cambiamento: le chitarrine sono state messe a tacere, le voci sono diventate dei cori che somigliano a tanti Chris Martin in un salone degli specchi e il synth spadroneggia nei toni sacrali di un rituale religioso inventato da qualche appassionato di Star Trek.
Qualcuno forse ha detto ai Maccabees che con un nome del genere darsi un tono esoterico mutuato dalla lezione Sigur Ròs avrebbe potuto valergli una svolta e loro hanno preso al volo il consiglio.
Risultato: un disco che sembra costantemente la stessa traccia, se non per qualche interruzione che per pochi minuti ti riporta alla mente un minimo sindacale di gioia di vivere (il singolo, Pelican, e la canzone successiva, Went away, tornano a ricordarci con motivetti da dance floor che alla fin fine questi Maccabees sono più Nuovo che Antico Testamento). E comunque gli conviene aprire un mutuo per ripagare i Muse una volta che Bellamy avrà ascoltato Ayla, all’inizio del disco. Che comunque è fatto bene, sono bravi, solo che se dovessi rimanere bloccata in ascensore con loro non saprei veramente cosa dirgli. Forse sbadiglierei, ecco. Poi metterei la prima traccia di Suck it and See nell’ipod e aspetterei che qualcuno ci venga a liberare.
Non ha senso proporre un album come Gone to the Wild all’inizio del 2012: perché mettere insieme tutti gli stereotipi del rock inglese umanitario di Coldplay e Muse (quelli cafoni degli ultimi album) quando pure gli Arctic Monkeys –rappresentanti dell’indie rock inglese- hanno capito che il corso del sole sta andando verso le spiagge della west coast?
Sporcatele un po’ quelle chitarre, invece di soffocarle. E sbottonatevi quei colletti, Maccabei. A meno che, proprio come suggerisce il titolo del vostro ultimo album, la vostra intenzione non sia quella di darvi alla macchia, confusi tra una serie di suoni e atteggiamenti datati alla decade scorsa che ormai non hanno davvero più nulla da dire.
Autore: Olga Campofreda