“The echo of a distant time
Comes willowing across the sand
And everything is green and submarine
And no one showed us to the land
And no one knows the where’s or why’s
But something stirs and something tries
And starts to climb toward the light” canta una celebre “Echoes”; e da un luogo lontano, magmatico, salgono dai solchi, verso la superficie, gli “Echoes” dei Fire! Orchestra, per un lavoro discografico che, indipendentemente dal valore (indubbio) musicale, è destinato a rimanere nella storia per il suo “peso” specifico: un triplo vinile, ricchezza di musicisti e “ospiti”, missaggio di Jim O’Rourke, un’ora e cinquanta di musica al contempo fisica e spirituale.
Se “Echoes”, che titola non solo l’intera opera, ma anche gran parte delle singole composizioni (le più lunghe), dia spazio affinché l’immaginazione si proietti verso astrazioni, le “estensioni” dei titoli marcano un territorio ben più “corporeo”.
“Echoes: I See Your Eye, part 1”, con il suo incipit “basso”, e il suo sviluppo intriso d’archi, evoca reminiscenze da “lucubrazioni” di quella profonda frattura che, con esatta saggezza, spezzò gli stilemi del jazz tra il finire degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, quando la sperimentazione volgeva ancora lo sguardo verso un’ideale, prima che la forma e il formalismo degenerasse in un linguaggio accademico e “fusion” deposto tra le mani di strumentisti più che di musicisti.
Gli echi ancestrali e totemici di “Echoes: Forest Without Shadows“, rammentano come l’umanità tribale abbia in seno e partorisca il senso primigenio della pulsazione
“Echoes: To Gatte It All. Once” porta l’ascoltatore su territori più meditativi, in cui un tema di pianoforte minimale volge il fianco a un notturno canto femminile affidato alla voce di Mariam Wallentin.
Le “brevi” “Sliding Whisper Of Pain”, “Nothing Astray. All Falling”, “Those Veins. A Silvernet” e “Not Yet Born. The Blind Courage Of Life” sono studi in bilico tra avanguardia e ricerca etnica.
“Echoes: Lost Eyes In Dying Hand”, se inizialmente con le sue esplosioni “cacofoniche” parla il linguaggio delle “liberazioni” da orchestrazioni free, con la sua struttura, i suoi riff, il suo cantato e i suoi temi, porge lo sguardo al jazz-rock-progressive; il brano, poi, è impreziosito dall’apporto di David Sandström (alla voce) e del polistrumentista Joe Mcphee (al sax tenore).
Il vuoto sprofonda nelle sperimentazioni di “Welcoming You. Drinking Your Dream”, prima che “Echoes: A Lost Farewell”, smentendo il suo titolo, ritrovi la via tra sentieri più sicuri.
“Echoes: Cala Boca Menino” è mefistofelico afflato da orgiastico sabba, nel bel contrasto tra le ritmiche, i fiati e la voce di Tomas Öberg.
“Double Loneliness” è tesa riflessione che risolve nella malinconica, gotica e “affannata” “Respirations” che affoga negli archi di Anna Lindal, Amalie Stalheim, Josefin Runsteen e My Hellgren.
L’epilogo è affidato “Echoes: I see your eye, part 2”, per un secondo e ultimo capitolo in cui si alza la voce narrante e “declamante” di Joe Mcphee.
È indubbio che i Fire! Orchestra abbiano consegnato altri “Echoes” da iscrivere nella storia della musica.
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autore: Marco Sica