Questa volta gli Archive fanno le cose in grande: dopo un silenzio che dura da 6 anni, dai tempi di The False Foundation, sembrava che il collettivo londinese non avesse più niente di nuovo da dire e che i due anni di pandemia ne avessero spento la creatività. Il silenzio era stato intervallato solo da un greatest hits (Versions, nel 2020) e una ri-edizione dello stesso greatest hits l’anno dopo (Versions remixed), che abbiamo seguito con puntualità, e un pizzico di attesa. Attesa ricompensata: gli ex-ragazzi di trenta anni fa capitanati dai tastieristi Darius Keeler e Danny Griffits, gli unici ad esserci dal primo disco del 1996, ritornano oggi per il ventesimo disco più forti che mai: Call To Arms & Angels non è solo pieno di creatività, letteralmente, visto che contiene ben 17 canzoni, ma è anche uno dei loro dischi migliori, dove si alternano pianoforte ed elettronica, rock duro e melodia intima, riflessione ispirata e grinta punk, come nella loro migliore tradizione. Basti pensare alla scelta dell’intro: si comincia con un vocalizzo al piano, dolce e lento, Surrounded By Ghosts, e si passa senza soluzione di continuità a uno dei pezzi più rock e peraltro uno dei momenti migliori del disco, l’inarrestabile e irresistibile Mr Daisy.
L’elettronica che tanto li ha caratterizzati non si fa attendere: la corale e Fear There And Everywhere tutta impostata sull’acid jazz non fa rimpiangere i capolavori del passato. Ma soprattutto la ipnotica Numbers richiama nella litania del cantato e dell’acid jazz e trip hop di base la tradizione Archive più pura. In particolare proprio Numbers, forse una delle canzoni più belle del disco rappresenta al meglio, soprattutto con la conclusione lasciata ai synth e alla voce elettronica, gli Archive del 2022.
Il singolo Shouting Within, altra litania, questa volta distorta e distopica, al pianoforte, accompagnato da un video in cui è protagonista assoluta la carismatica vocalist Holly Martin (con gli Archive dal 2012, un grandissimo acquisto) con le sue incredibili alterazioni vocali di rabbia, paura e vulnerabilità, è un altro ottimo esempio di quello che la musica degli Archive è ancora oggi capace di creare.
Ecco come la Martin stessa spiega il testo di Shouting Within: “Negli ultimi due anni abbiamo visto come la paura costante e l’incertezza possono impattare le comunicazioni umane. Scrivere questa canzone ha significato parlare di come le persone si sono sentite arrabbiate, e così vulnerabili intrappolate come erano nelle divisioni. Scavando connessioni ma avendo paura dei contatti. Tante teorie, tante storie, alti e bassi. E’ difficile sopprimere la rabbia interiore che cresce da questo”.
Tutto l’album, registrato ai RAK studios di Londra, e prodotto dal collaboratore di lunga data Jérome Devoise, è una riflessione sul mondo durante e dopo la pandemia, una riflessione sulla polarizzazione dovuta alle lotte quotidiane per la difesa della salute, del benessere e alla paura relativa alle circostanze economiche.
E’ certamente un album molto cupo e duro, perlomeno fino alla traccia 7, Daytime Coma, lunga 14 minuti e primo singolo anticipatore dell’album. Ed è il caso di dire che proprio fino alla traccia 7 gli Archive lasciano praticamente senza fiato l’ascoltatore, tanto è bello il disco e tanto e cupo, duro, tosto, rockettaro anche nei pezzi elettronici.
Spiega questa oscurità del disco così Darius Keeler: “riflettere su questi tempi come artisti fa emergere oscurità e rabbia, ma anche uno strano senso di ispirazione che in certi momenti era destabilizzante. Ci ha fatto apprezzare il potere della musica e come siamo fortunati a poter esprimere le nostre sensazioni tramite la musica. Sembra che ci sia luce alla fine del tunnel, ma ci sono ombre anche in questa luce”.
Daytime Coma, delirio lirico-musicale lungo 14 minuti, è una vera e propria mini-opera musicale in sé, una delle cose migliori che gli Archive abbiano fatto in carriera: racconta al meglio, più musicalmente che non per i testi, questo buio di due anni e questa luce in fondo al tunnel ancora piena di ombre. L’intro al piano, progressivamente complicato da altri riff sempre di tastiera, è tipicamente Archive, mentre suonano meravigliosamente nuove e fresche le dinamiche in crescendo tutte in synth che portano la canzone ad esplodere nel finale, con batteria e chitarre, per poi rilassarsi, fino a una seconda esplosione, di cui Head Heavy è una continuazione quasi per inerzia, mentre Enemy è un altro pezzo corale e aggressivo, arrabbiato, trip hop. Every Single Day è un ennesimo esempio di come gli Archive in questo disco sappiano essere “classici” nel loro sound e contemporaneamente suonare freschi e innovativi, come se fosse uno dei loro primi dischi in carriera.
Si potrebbe dire che il CD 2, da Freedom fino a Gold, rappresenti una sorta di lato b più calmo e pacifico, più introverso, del CD1 così aggressivo e tosto: Freedom, per esempio, altra canzone lunga circa dieci minuti, inizia con un rap ma dalla metà si trasforma in un lento voce e piano. All that I Have prosegue questa scia, mentre Frying Paint e We Are Alive sono altri trip hop ipnotici, di quelli a cui gli Archive ci hanno ben abituato, ma non sono meno oscure, per quanto riguarda i temi trattati, anche se si sceglie il ritmo lento e lo stile più tradizionale per trattarli.
Alive è un’altro lento, ma stavolta è una ballata floydiana tutta voce maschile e chitarra, impreziosita da controcanti e cori e acuti, un altro esperimento decisamente riuscito bene.
Fino a qui gli Archive in questa lunga collezione di 17 canzoni dove nemmeno una è un puro riempitivo, ci hanno emozionato, ma anche scioccato e sorpreso con intuizioni musicali geniali e una grinta rock raramente espressa in maniera così pura.
Everything’s Alright ripropone il piano classico, un’altra composizione che inizia in scia classica per poi “complicarsi” con l’ingresso della batteria, mentre The Crown è un’altra hypno stile Numbers, volutamente messa nel finale a contrappunto del suo pezzo speculare in inizio. Questa però cresce col passare dei minuti, fino a diventare psichedelica nel finale, con batteria e basso ancora una volta stile Pink Floyd anni ’70. Il disco, meraviglioso e mai noioso, sembra non volersi risolvere: a The Crown che dura 9 minuti succede l’ultimo pezzo, di ben 8 minuti, Gold, trionfale, oscuro ed epico nel finale, ed è come se gli Archive avessero così tanto ancora da dire da non riuscire a interrompere il profluvio di musica.
Sembra insomma che la formazione attuale, con Mike Hurcombe alla chitarra, e Jonathan Noyce ex Jethro Tull al basso, nonché Steve “Smiley” Barnard alla batteria e Pollard Berrier e Dave Pen alla voce e chitarre ritmiche, sia la migliore possibile oggi e abbia permesso al collettivo di trovare una quadra preziosa intorno ai suoni che sono da sempre il loro classico, innovandoli dall’interno, e producendo quindi una rivoluzione interiore del loro sound, svegliando melodie mai sentite eppure così “tradizionalmente” Archive.
Questo disco si inserisce perciò direttamente fra i loro più grandi capolavori, ripagando i fan e non solo i fan di sei anni di attesa.
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autore: Francesco Postiglione