Ora che i riflettori sulla scena di Detroit si sono spenti, ci si può occupare dei gruppi provenienti dalla Motor City evitando inutili enfatizzazioni per concentrarsi esclusivamente sulla musica. Che, soprattutto nel caso dei Soledad Brothers, è ciò che conta. Arrivata al traguardo del quarto album, la formazione americana – trasformatasi ora in un quartetto – ha deciso che è venuto il momento di fare sul serio e dare alle stampe un disco con i connotati del classico.
“The Hardest Walk” non dimentica il lato blues e minimale sin qui marchio di fabbrica della band, ma ne allarga lo spettro sonoro in molteplici direzioni. La batteria martellante, la chitarra incisiva e le brevi incusioni di sax dell’open-track “Truth or Consequences” rimandano direttamente agli Stones dei primi anni ’70, “Exile On Main Street” o giù di lì, mentre la successiva “Downtown Paranoia Blues” sembra rubata ai cugini Kings Of Leon. Ma già alla terza canzone, “Crying Out Loud (Tears of Joy”)”, il registro sonoro cambia e i Soledad Brothers si inoltrano in territori lenti, da folk-blues ipnotico, con un mood ubriaco che trabocca spleen esistenziale da ogni nota.
Con “Crooked Crown” i ritmi tornano ad essere sostenuti, mentre la fascinosa “Sweet and Easy” procede con il suo incedere avvolgente, perfetto apripista per il brano centrale del disco: “Dark Horses”, quattro minuti di oscurità psichedelica.
Il breve intermezzo rumorista di “White Jazz” è invece l’antipasto all’episodio più marcatamente dinamico e rock’n’roll di “The Hardest Walk”. Si intitola “Good Feeling” e sembra un’altra (bella) canzone rubata al songbook segreto di Jagger e Richards.
Ancora sonorità ipnotiche nel crescendo di “Let Me Down”, cui segue sullo stesso solco la malia psichedelica di “Mean Ol’ Toledo” che conduce alla desertica conclusione di “True To Zou Zou” e alla ghost-track dal groove R&B – molto Dr. John – nascosta tra le pieghe finali dell’album. Il migliore dei Soledad Brothers e il primo grande disco del 2006.
Autore: Roberto Calabro’