Dopo una serie di pubblicazioni “minori” (da citare lo stralunato “Eating the Stars” del 2007 – in cui è tra l’altro presente una surreale cover di “Don’t Dream It’s Over” e “Live Recordings” del 2010 che anticipa futuri suoi classici), Julia Holter si impose con l’ottimo “Tragedy” (2011) proponendo una diretta e istintiva avanguardia e sperimentazione che metteva a fuoco quanto “ipotizzato” con “Cookbook” del 2009 e “Celebration” del 2010 e che trovava l’apice in brani quali “The Falling Age”, “Celebration”, “Finale”… e che, con l’altrettanto bello e riuscito “So Lillies”, lasciava intravedere quale sarebbe potuta essere la via che la Holter avrebbe seguito in futuro.
Ripetersi, seguendo quelle direttrici, sarebbe, infatti, stato pleonastico e anche rischioso in termini sia artistici che, probabilmente, economici e così la Holter con “Ekstasis” (2012) decide di virare verso una dimensione più “pop” e anche più accessibile (come “In The Same Room” su tutte o nelle citazioni di “Goddess Eyes” I & II) e dove gli umori differenti, che in “Tragedy“ avevano assunto spasmi d’avanguardia, diventano ispirazione per “canzoni” traverse ma comunque, a loro modo, formali anche quando assumono dimensioni meno convenzionali, come nella bella “Boy in the Moon” e in “This Is Ekstasis”; tale formula si affina in “Loud City Song” (2013) che affonda ancora di più le radici verso un “mainstream” vestito di alternativa come sintetizzato da “Hello Stranger” (di Barbara Lewis), dalla delicata e intima “He’s Running Through My Eyes” o dall’ammiccante “This Is a True Heart”.
Nel 2015 è la volta di “Have You in My Wilderness” e con esso della consacrazione definitiva, per un lavoro discografico tanto eclettico quanto equilibrato che mette d’accordo tutti (eccetto forse i nostalgici delle sperimentazioni dei gli esordi e di “Tragedy”); una miscellanea di generi filtrati dalla sensibilità della Holter che spaziano dal cantautorato indie (compare anche l’ombra di Lisa Germano in “Betsy on the Roof”), alla psichedelia anni sessanta (“Sea Calls Me Home”), a reminiscenze folk (“Everytime Boots”), a intimismo (“Lucette Stranded On The Island”), a visioni lisergiche (“Vasquez”) con una qualità media elevata e senza apparenti punti di cedimento.
Dopo l’apparizione nella colonna sonora di “Bleed For This” e la collaborazione con Chris Kallmyer e Lucky Dragons in “Rhyolite” (entrambi del 2016), nel 2017 la Holter pubblica il gradito “In The Same Room”, registrato dal vivo ai RAK Studios, che propone nuove versioni “essenziali” (con la Holter alla voce e alle tastiere, Corey Fogel alle percussioni e voce, Devin Hoff al contrabbasso e Dina Macabee alla viola e voce) ma altrettanto belle, di brani tratti dai precedenti dischi tra cui: “So Lillies”, “Lucette Stranded On The Island”, “City Appearing”, “Vasquez”, “Betsy On The Roof”, “Betsy On The Roof” ….
Quando la rotta sembrava tracciata, Julia Holter stupisce e nel 2018 pubblica l’eccelso “Aviary” che incarna la sintesi tra le sperimentazioni degli esordi (qui più strutturata) e la più “composta” scrittura degli anni successivi, che si sublima nei tanti momenti di pregio tra cui spiccano, “Chaitius”, “Voce Simul”, “Everyday Is An Emergency”, “I Shall Love 1” e “I Shall Love 2” (con reminiscenze dei Velvet Underground & Nico), “Colligere”, “Why Sad Song” …
Dopo “Aviary”, la Holter impegna il tempo con una colonna sonora “Never Rarely Sometimes Always” e (da citare per dovere di cronaca) collaborando sia con gli Spektral Quartet e Alex Temple per “Behind The Wallpaper” che con Sharon Cheslow e Corin Tucker per “For The Light I Wait” che con Call Super (in tal caso) per una trascurabile “operazione”; nel mentre, da segnalare invece la voce prestata nel più interessante “Tombstones: Live In Brooklyn” di Michael Pisaro-Liu (per registrazioni risalenti al 2012, ma pubblicate nel 2022).
Così, dopo sei anni dall’ultimo lavoro discografico, vede la luce “Something In The Room She Moves” (Domino) con cui la Holter abiura nuovamente le estremizzazioni manifeste che avevano in parte caratterizzato “Aviary”, per riproporre una scrittura più “morbida”, un “pop” d’autore elegante e introverso, lasciando emergere solo tra le pieghe dei solchi la complessità e la cura nei dettagli e più ardite composizioni, come perfettamente rileva “Sun Girl”, ottimo composito brano di apertura nonché singolo che ha anticipato l’uscita del disco (va subito detto che la sequenza dei brani sul vinile non segue quella digitale del CD e liquida, noi seguiremo quella del vinile).
“These Morning” ingentilisce nell’utilizzo dei fiati e del contrabbasso per un mood dalle sfumature jazz che si perfezione e completa nel bello e totalizzante brano eponimo “Something In The Room She Moves” (a firma anche di Devin Hoff) in cui ogni eccesso è compresso, misurato e pesato (caratteristica questa a ben sentire dell’intero disco), come ben si evince dalle screziature del flauto.
Il tempo di voltare lato e la splendida ritmica, gli archi, i flauti, i sintetizzatori e il cantato di “Spinning” (scritta con Devin Hoff) tessono strutture “tetradimenzionali” che veicolano verso le curvature tenui dei suoni e degli unisoni che caratterizzano l’immateriale successiva “Materia”.
La liturgica “Meyou” gioca con le voci e con l’onomatopea e chiude il Side B e il primo LP.
Inaugura il Side C la riuscita “Evening Mood” (anche essa scritta con Devin Hoff) in cui canzone d’autore, pop, jazz e sperimentazione trovano una perfetta crasi per il brano più immediato di “Something In The Room She Moves”.
La strumentale “Ocean” (scritta con e Chris Speed e Devin Hoff) è “nomen omen” ed immerge l’ascolto in abissi sonori tra cetacei e lente correnti ascensionali.
“Talking to the Whisper” è esatta ballata di progressive contemporaneo che evoca nelle fratture strumentali precipizi free retrò.
La puntina termina la sua corsa con “Who Brings Me”, notturna e profonda nella sua calda pacatezza.
Con “Something In The Room She Moves”, Julia Holter ha ottimizzato tutto quanto di buono realizzato con “Have You in My Wilderness”, liberandosi però sia del suo passato che delle citazioni e dei richiami, per un disco fortemente compiuto, personale che si lascia apprezzare e amare con il tempo e con i ripetuti ascolti …
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