Tutti i personaggi più o meno noti che in questi gloriosi anni di carriera hanno affiancato la produzione di Rob Garza e Eric Hilton, ovvero al secolo i Thievery Corporation (jazzista in origine lui, musicista punk l’altro, era logico ritrovarsi nel trip-hop!) ricompaiono in questo nuovo disco, l’ottavo della loro carriera dalla pubblicazione del loro primo album, Sounds from the Thievery Hi-Fi (1997).
Sarà per questo che il disco assume quasi l’aspetto di una festa di celebrazione, una sorta di happening di ritrovo, dove trip-hop, contaminazioni reggae e elettronica pura fanno da registi e da invitati speciali contemporaneamente. LouLou, ill rapper giamaicano Notch, Mr. Lif e Shana Halligan: ci sono ancora loro a festeggiare il duo elettronico, come già in dischi passati, e se è vero che non figurano più nomi notissimi come Flaming Lips, David Byrne e Perry Farrell, oltre alla cantante Gunjan, presenti nel sesto disco, abbiamo adesso new entry come Puma, Elin Melgarejo, Raquel Jones e Zee, mentre in passato c’erano stati la cantautrice italo-islandese Emiliana Torrini, musicisti di bossa nova, e tantissime altre comparse, per una progettazione musicale che fa del collettivo l’idea base di ogni lavoro.
Come gli altri dischi, quest’ultimo, The Temple of I & I, è un capolavoro: dal dub elettrico di Thief Rockers, Fight to Survive, e Ghetto Matrix (il primo singolo), dal trip hop ipnotico di Lose to Find, alla techno melodica di Letter to the Editor, al reggae acido di Strike the Roots, True Sons of Zion, Drop Your Guns, Weapons of Distraction, l’album non smette di stupire, incantare, e non smetterà di farvi muovere a ritmo. Gioia per le orecchie e per il movimento del corpo, questo disco in verità non dice nulla di nuovo rispetto a quanto di già ottimo fatto dai Thievery Corporation, ma è già molto continuare a garantire un’ottima qualità all’ormai ottavo lavoro discografico, con una formula che pure se diventata classica non smette di acquisire valore, e non diventa lettera morta.
Da una parte i Thievery ribadiscono indiscussi il loro primato di essere gli unici veri eredi dei Massive Attack. Dall’altra innovano il genere, come già negli altri dischi, contaminandolo al massimo: il ritmo irresistibile afro di Road Block, il reggae giamaicano di Notch, lo ska di Puma in Babylon Falling, le voci stupende di Elin Melgarejo o di Raquel Jones, o Shana Halligan, il rap di Mr Lif o Zee, rendono l’amalgama assolutamente irresistibile.
Del resto sono ormai 21 anni che Hilton e Garza giocano con acid jazz, psichedelia, breakbeat, bossanova, dub, trip hop e rap, fino contaminazioni rock con Byrne e Flaming Lips. L’unica critica che gli si potrebbe ascrivere a questo punto è l’autoreferenzialità, visto che giocano sempre con gli stessi ingredienti, dosandoli diversamente ma non cambiando mai la formula di base. Stavolta l’ingrediente speciale è la Giamaica e il reggae, visto che la band ha soggiornato per mesi a Port Antonio.
Ma in fondo è forse più una trovata mediatica, perché tra gli interventi degli ospiti e l’ottima produzione dei pezzi strumentali come la title track o Let the Chalice Blaze non troviamo in realtà più world music di altri episodi passati. Dove c’erano state in passato bossanova e Sausade qui troviamo il reggae, rivisitato in tutti i modi, ma in fondo il marchio di fabbrica dei Thievery resta decisamente elettrico ed occidentale. E non ce ne deve dispiacere.
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autore: Francesco Postiglione