Joseph Arthur – da Akron, Ohio – è artista a 360 gradi che sfida ogni definizione. Cantautore, pittore, performer, visual artist: la sua creatività poliedrica lo rende figura affascinante e originale della scena musicale degli ultimi trent’anni.
Scoperto nel 1996 da Lou Reed e Peter Gabriel, che lo volle nella sua etichetta Real World Records, Arthur ha costruito un’importante carriera, caratterizzata da una costante ricerca artistica e da una musica che attraversa generi senza mai lasciarsi confinare.
Con oltre quindici album all’attivo, ha esplorato molteplici sonorità che spaziano dal folk intimista al rock più sperimentale, passando per collaborazioni prestigiose con artisti come Ben Harper (con il quale fondò i Fistful of Mercy) e Jeff Ament dei Pearl Jam (nei RNDM).
Oggi, come frontman del supergruppo Silverlites, insieme a Peter Buck (R.E.M.), Rich Robinson (Black Crowes) e Barrett Martin (Screaming Trees) Arthur continua a spingere i confini della sua arte.
Famose sono le sue performance live durante le quali, sul palco, crea paesaggi sonori ipnotici, utilizzando chitarre, pedali e loop station.
Tra i suoi brani più celebri spicca l’intensa e profonda “In the Sun” (dall’ottimo “Come to Where I’m From” del 2000), brano che è stato reinterpretato da artisti del calibro di Michael Stipe, Chris Martin e dallo stesso Peter Gabriel, certificando la considerazione e l’importanza che Arthur ha acquisito nel panorama musicale e di cui gode.
Artista completo, Arthur non si limita alla musica: le sue opere visive, spesso create durante i concerti, sono parte integrante della sua espressione creativa.
Nei prossimi giorni, Joseph Arthur torna in tour in Italia, solo tre tappe questa volta (Napoli, Roma e Siena), ma una in particolare è molta attesa perché sarà per la prima volta a Napoli, precisamente domenica 16 marzo presso l’Auditorium Novecento.
In questa intervista, scopriamo l’uomo dietro l’artista, la sua visione del mondo e cosa lo ispira a continuare a creare.
Ti sei presentato al grande pubblico nel 1997 dando alle stampe “Big City Secrets” con la Real World Records di Peter Gabriel, etichetta con cui hai pubblicato tanti tuoi dischi, tra cui gli storici “Big City Secrets”, “Come to Where I’m From” del 2000, “Redemption’s Son” del 2002 (per citare i più vecchi)… come ricordi il tuo incontro con Peter Gabriel?
Beh, Peter Gabriel l’ho conosciuto per telefono la prima volta. Mi chiamò all’improvviso mentre lavoravo in un negozio di chitarre ad Atlanta. Stavo lavorando per pochi spiccioli, quindi anche solo quella telefonata fu un’esperienza che mi cambiò la vita e alterò il corso della mia esistenza. L’incontro era previsto a New York, dove avrei dovuto suonare in un’esibizione per lui. L’avrebbe registrata per portarla alla Real World e decidere se avrebbero dovuto mettermi sotto contratto o meno.
Quindi, in un certo senso, il nostro primo incontro aveva il sapore di un’audizione.
Peter portò con sé il suo amico Lou Reed, che aveva con sé un registratore DAT per registrare lo spettacolo per Peter. Fu un’esperienza travolgente e sconvolgente. Lou Reed era un mio idolo. Lo era anche Peter, ovviamente, e io non ero un performer esperto, quindi fu quasi un’esperienza extracorporea. Ma, a quanto pare, lo spettacolo andò abbastanza bene.
Dopo lo show, ricordo di essere andato da Lou, e lui mi disse: “Mi piace quella canzone, si chiama ‘King of Hide and Seek’.” Io non avevo una canzone con quel titolo, ma quelle parole erano nel testo di una delle mie canzoni, quindi capii a cosa si riferiva. Dopo il concerto, andammo tutti a cena insieme: io, Peter e Lou, seduti al tavolo. E proprio accanto a noi, in quel ristorante praticamente vuoto, c’era Dolly Parton seduta in un’altra cabina. Un’altra svolta incredibile degli eventi, se ci pensi.
Fu interessante notare come Peter e Lou fossero più emozionati dalla presenza di Dolly Parton di quanto lei lo fosse per loro. Peter mi raccontò anche che Dolly Parton era stata la prima scelta per cantare “Don’t Give Up”, il duetto che poi Kate Bush interpretò in maniera straordinaria. Fu un aneddoto curioso. Ma sì, direi che il mio primo incontro con Peter Gabriel non avrebbe potuto essere più incredibile.
Dal tuo bel “Big City Secrets” ad oggi sei sempre stato coerente con la tua idea di musica e di arte in generale. In questi circa trent’anni il mondo musicale è cambiato, aprendosi anche a nuove forme di diffusione. Quali sono state per te le positività e le negatività di tale cambiamento?
È interessante perché, per tutti noi, il modo di distribuire la musica è cambiato completamente. Un tempo eravamo davvero dipendenti dai “gatekeeper” (NdR una persona che controlla o limita l’accesso generale a qualcosa) che decidevano se potevamo realizzare la nostra visione creativa e portarla al mondo. Ora che la distribuzione è aperta, senza filtri, non ci sono più intermediari e ci ritroviamo faccia a faccia con noi stessi, con i nostri limiti e le nostre paure.
In un certo senso, questo obbliga una persona a confrontarsi con i propri meccanismi di auto-sabotaggio e a cercare una connessione più profonda con la propria spiritualità, superando gli ostacoli interiori. Per questo motivo, vedo questo nuovo sistema di distribuzione aperta come una spinta a diventare una versione migliore di noi stessi, se vogliamo davvero condividere il nostro lavoro con il mondo.
Una volta, un cantautore di talento poteva conquistare il favore dei “gatekeeper” , nonostante comportamenti autodistruttivi, il suo team lo avrebbe comunque sostenuto. Oggi, invece, credo che per realizzare la propria visione sia necessario prendersi cura di sé stessi sotto ogni aspetto. Questa è la mia esperienza. A me piace questo nuovo scenario, perché mi spinge a prendermi più cura di me stesso, sia fisicamente che spiritualmente.
Celebri sono le tue esibizioni dal vivo; come vivi la dimensione live?
Negli ultimi anni ho avuto un lungo periodo in cui non mi esibivo dal vivo molto spesso, ma ultimamente ho fatto molti tour. Questo sarà il quarto in un anno. Quello che sto riscoprendo – e che proprio ieri scrivevo a un amico – è che il pubblico aiuta davvero un artista a evolversi. Dipingo anche dal vivo, e ho notato che l’energia del pubblico entra nella pittura. Lo stesso vale per un musicista: se un artista è aperto all’energia del pubblico, si crea una sorta di relazione in cui il pubblico lo spinge a esplorare nuove direzioni e a rafforzare il proprio spettacolo dal vivo nel tempo.
Ultimamente mi sto concentrando proprio su questo: quanto sia una benedizione poter andare in tour così spesso, perché mi costringe a crescere artisticamente.

Nel 2014 hai deciso di omaggiare Lou Reed dopo la sua morte con un disco dedicato alla sua musica. Da dove è nata questa tua scelta?
Amavo molto Lou Reed. Era un mio amico e, quando è morto, ho attraversato un lutto profondo. Non avrei mai pensato di realizzare un intero album tributo per lui. Probabilmente avrei registrato una canzone, ma poi Bill Bentley della Vanguard Records mi chiamò e mi disse: “Penso che dovresti fare un album tributo.”
All’inizio credevo che intendesse un album collettivo della Vanguard dedicato a Lou Reed, con vari artisti, e che io avrei dovuto registrare solo un brano. Ma lui mi spiegò che intendeva che fossi io a realizzare un intero album di canzoni di Lou Reed. Fu un compito enorme.
Molte delle migliori idee che ho avuto nella mia vita non sono venute da me, ma da altri. E questa era una di quelle. All’inizio mi sembrava fin troppo audace farlo, ma il mio bisogno di esprimere il mio dolore per la sua perdita era così profondo che alla fine mi ci sono dedicato.
L’ho registrato a Brooklyn, in inverno, completamente da solo. Ci ho messo circa tre giorni. Ho iniziato con “Walk on the Wild Side”, poi ho semplicemente scelto le canzoni che mi venivano in mente una dopo l’altra. Credo ce ne siano dieci in totale. Dopo aver finito, mi sono messo a camminare per Brooklyn, immerso nella neve. Era l’atmosfera perfetta. Alla Vanguard lo adorarono e decidemmo di pubblicarlo.
“Come to Where I’m From” non è solo un tuo disco ma è anche il nome del tuo podcast partito nel 2019; ci vuoi parlare di questo tuo personale e particolare progetto?
“Come to Where I’m From” non è solo un tuo disco ma è anche il nome del tuo podcast partito nel 2019; ci vuoi parlare di questo tuo personale e particolare progetto?
Io e il mio amico A abbiamo deciso di iniziare un podcast. Lui è un produttore straordinario e un fantastico co-conduttore. Aveva accesso a telecamere, montaggio, e si occupava di prenotare gli ospiti. Grazie a questo, poteva concentrarsi sugli aspetti tecnici, mentre io mi dedicavo alle interviste. È stata una delle mie esperienze preferite.
Amo quella trasmissione, amo le conversazioni e la comunicazione. Sono anche un grande fan dei podcast.
Purtroppo, poi mi sono trasferito in Arizona, dico “purtroppo”, ma in realtà amo l’Arizona. Tuttavia, il fatto che io e A non viviamo più nello stesso stato significa che il podcast dovrà essere reinventato in qualche modo in futuro. Ma il podcasting è qualcosa che apprezzo profondamente.
Oltre a essere un musicista sei un abile “artista visivo”. Qual’è il tuo rapporto con questa differente forma d’arte?
Sono stato un artista prima di essere un musicista, quindi semplicemente dico che non ho mai realmente iniziato.
Ho una figlia di tre anni e mezzo, e passo molto tempo con lei e con altri bambini. I bambini sono completamente aperti alla creatività. Penso che la maggior parte di noi abbia quella scintilla dentro di sé, e se non viene soffocata, continua a evolversi naturalmente.
Per me, la pittura è sempre stata un mezzo di espressione che non ho mai lasciato andare. Continua semplicemente a trasformarsi.
Cosa hai in programma per l’immediato presente e per il prossimo futuro?
Per il futuro immediato, ho in programma un tour di un mese nel Regno Unito, in Italia ovviamente, a Bruxelles e uno spettacolo in Francia.
A Parigi ci sarà anche un’esposizione, e ne sono entusiasta. Stiamo finalizzando l’ordine dei brani per un nuovo album, e siamo molto contenti del risultato. A Parigi ho registrato un video musicale per il prossimo singolo, che è quasi pronto per l’uscita.
Inoltre, sto lavorando a un disco acustico che seguirà questo album. Mi sento in un periodo di entusiasmo creativo, ispirazione e motivazione. È una sensazione meravigliosa, come se un nuovo spirito si fosse rigenerato in me.
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Traduzioni a cura di Chiara Curcio