“Sei capace di osare di inabissarti nel mio mondo senza speranza?” canta Jamie Lee in Hopeless World. Per poco più di un’ora, al Circolo Magnolia a Segrate di Milano, una spicciolata di persone, troppo poche decisamente per il talento di questa band di Manchester, gli ha risposto di sì, e si è tuffata con lui in un viaggio onirico, una specie di sogno lucido colorato di luci soffuse (quelle bellissime, di atmosfera e di effetto, della scena) e di musica drammatica e trasognante.
Jamie Lee si presenta da solo, sul mini-palco, all’improvviso, con chitarra acustica in mano, a stretto contatto con il pubblico, e inizia a suonare, senza squilli di tromba e annunci, e presenta un nuovo pezzo, forse So Many Manchester Mornings il cui testo si trova sulla quarta di copertina dell’ultimo disco Suicide Songs.
Poi arrivano gli altri, Charlie Cocksedge e Billy Byron e Scott Beaman, anzitutto, e i musicisti di supporto, e si inizia con You Look like a Sad Painting on Both Sides of the Sky, una dolce nenia accompagnata dal violino di Kristy Mangan. Poi, eccolo a chiedere di osare entrare nell’Hopeless World, esecuzione perfetta di un pezzo musicalmente solare e testualmente durissimo. E dopo, arriva I’ll be the Night, il singolo del nuovo disco, la stupenda e nietzscheana canzone sul nulla che trionfa sul mondo marcio, e riporta i valori e disvalori allo zero assoluto.
Segue BlueBell Fields da The Shadow of Heaven, primo album che sarà ingiustamente quasi trascurato stasera, e poi, emozionantissima, quella serenata al dolore e al buio che è Night Came, una mini-opera di otto minuti che Lee sceglie di cantare tra il pubblico, portandosi chitarra e asta del microfono. La canta proprio in mezzo alla gente, quasi a celebrare il sapore collettivo di questa splendida poesia notturna. E verso la fine, il delirante finale è ancora più potente dal vivo, con la band che fatica a seguire un Jamie Lee ispirato e disperato più che mai, che suona come se fosse l’ultima volta della sua vita.
Jamie ritorna fra i suoi e suona Suicide Song, ninna nanna ironica e ipnotica, e poi All My Life.
E’ la volta di uno dei momenti più emozionanti, la splendida Letter to Yesterday, suonata qui a pieni strumenti (sul disco c’è solo basso e voce e pochi arpeggi di chitarra) e a velocità raddoppiata, per cui la canzone suona come un tambureggiamento in crescendo.
Purtroppo, per i pochissimi fan accorsi ad ascoltare, siamo già impensabilmente alla fine: dopo A Cocaine Christmas and an Alcoholic New Year, in cui Jamie fa dire al suo barbone waitsiano protagonista del pezzo “La gente parla come se stesse vincendo, come se il mondo non stesse accelerando, come se avesse il controllo”, si chiude (degnamente, anche se troppo presto) con Goodnight London, meravigliosa ballata al piano in cui Jamie celebrava il suo addio a Londra.
Qui invece lo sceglie per celebrare il congedo dal pubblico, senza bis, senza troppe smancerie, forse in una serata no dal punto di vista della sua voglia di stare sul palco, ma certo indimenticabile per chi c’era anche solo per un’ora. Come indimenticabile è l’esecuzione al piano, semplice, nuda, ma assoluta.
Jamie Lee è un poeta simbolista di potenza terrificante, di quelli che non se ne vedevano dai tempi di Jim Morrison, e stasera ne ha dato prova con I’ll be the Night, Night Came e Letter to Yesterday, ma mancavano ancora all’appello almeno I am the Lord e I’m not Here per dimostrarlo ancor di più.
Ci ha fatto inabissare nel suo mondo senza speranza, fatto di canzoni da suicidio che in realtà sono un inno alla vita, e come dice lui stesso nel testo, è stato bellissimo, magnetico, di impatto immediato anche per chi non conosceva la band. Non li si può perdonare di essere andati via troppo presto, ma si può almeno sperare che questo sia il giusto motivo per tornare a rivederli, magari quando con un po’ di fama in più avranno il pubblico che meritano.
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autore: Francesco Postiglione
[per il video si ringrazia www.indie-zone.it]