di Michael Haneke, con Ulrich Tukur, Susanne Lothar, Burghart Klaußner, Josef Bierbichler
Palma D’Oro all’ultima edizione del festival di Cannes il “Nastro bianco” di Michael Haneke è un racconto controverso e rarefatto ambientato ad Eichwald, un piccolo villaggio della Prussia Orientale, pochi anni prima dello scoppio della Grande Guerra. Protagonista è la vita di un microcosmo difficile e tormentato che nonostante l’apparente tranquillità e serenità, cova al suo interno violenza e orrore. Neanche i bambini sono esclusi da tale vortice di brutalità, diventandone protagonisti e allo stesso tempo vittime. Sono costretti a portare un nastro bianco simbolo di purezza e di candore a celare la loro triviale crudeltà.
“Il mio obiettivo principale – afferma il regista in una intervista per la rivista Tafter – era di presentare un gruppo di bambini ai quali vengono inculcati degli ideali considerati assoluti, e il modo in cui li assimilano. Se si considera assoluto un principio o un ideale, che sia politico o religioso, questo perde umanità e porta al terrorismo. Avevo pensato, come titolo alternativo, a “La mano destra di Dio” perché i bambini del film applicano alla lettera questi ideali e puniscono quelli che non li condividono al 100 %”.
Un film che ha impegnato il cineasta austriaco per oltre 10 anni (oltre 7mila i bambini visionati durante il cast) e in cui riprende un tema, quello della rappresentazione del male, già affrontato nella sua opera.
Ma se “Funny Games” era una rappresentazione barocca e disturbante della violenza, presentata in maniera a dir poco pornografica, in tutta la sua materialità e carnalità, qui Haneke prova ad esplorare la mostruosità umana nella quotidianità della vita sociale e collettiva. La Grande Guerra e l’avanzata del nazismo sono lontane eppure se ne scorge la potenzialità anche se in forma embrionale. Gli orrori della guerra, la prevaricazione sui propri simili, l’odio e la violenza fine a se stessa hanno già attecchito nei volti rassicuranti dei figli del pastore, bambolotti dal viso angelico eppure inquietante.
“Il film – ha affermato il regista – non tratta solo di fascismo, un’interpretazione fin troppo semplice visto che il racconto è ambientato in Germania, ma di un modello e del problema universale dell’ideale deviato”.
Il nastro bianco sembra esordire come una specie di thriller in cui lo spettatore è invitato a scovare il colpevole di una serie di strani incidenti che sconvolgono il piccolo borgo prussiano e coinvolgono tutta la comunità trasportandolo – attraverso la voce narrante del maestro di musica – nelle case di un dottore, di una levatrice, di un pastore protestante, di una famiglia nobiliare, di un contadino per svelarne i lati più intrinsechi e oscuri. La sottile dicotomia tra bene e male è caricata dalla fotografia delle scene: un bianco e nero netto senza ombre, fortemente contrastato che sembra richiamare il cinema di Bergman e dona al film un’atmosfera netta, precisa eppure fortemente enigmatica.
Atmosfera che è esaltata dai pochi movimenti di macchina, i dialoghi mozzati, lo sguardo gelido dei protagonisti, le scene interrotte che danno al film un ritmo lento e sconnesso. Quasi assente il commento musicale, sostituito dai morbidi silenzi che come neve celano in un bianco strato i grandi e piccoli segreti della comunità di Eichwald inconfessati anche agli spettatori.
Autore: Michela Aprea