Soltanto tre anni fa Geordie Greep (voce e chitarra), Matt Kwasniewski-Kelvin (seconda voce e seconda chitarra) e Morgan Simpson (batteria) erano tre studenti alla BRIT School per arti e talenti di Londra. Decidono di formare una band e siccome manca la linea fondamentale ritmica arriva Cameron Picton alla voce e basso. Tre anni dopo, c’è già un disco d’esordio che si fregia di un’etichetta storica, la Rough Trade Records (Strokes, per capirci, ma anche Libertines e Antony and the Jonsons solo per citare gli ultimi dieci anni) e ancora prima un EP e un curriculum di tutto rispetto compreso un live importante per radio alla KEXP, e alcuni remix del secondo singolo Speedway (che segue Bmbmbm) da parte, tra gli altri, di Blanck Mass (produttore dell’ultimo disco degli Editors, sempre per capirci). Se si aggiunge un’esibizione al South by Southwest festival di Austin, e la produzione del disco da parte di Dan Carey della Speedy Wunderground, si comprende perché questo esordio è un disco di cui molti parlano, e in qualche modo la notizia stessa della sua uscita fa scalpore.
Ascoltandolo, l’impressione è contrastante: da una parte, lascia pensare che tutto il ben parlare di questi ragazzi praticamente ventenni, con già titoli e premi alle spalle (il batterista già a 15 anni aveva vinto un’esibizione-gara), non sia sprecato, e che il disco, anche se con qualche ruvidità, fa intravedere tutto il talento della band. Dall’altra, l’assoluta assenza di melodia, armonia, classicità, e ritmi regolari, produce inevitabilmente un effetto “dissonante” che non può piacere, ma al limite solo far sorprendere.
Di certo c’è che balzano immediatamente all’orecchio due riferimenti diretti: i Sonic Youth degli esordi e i Talking Heads di Fear of Music, questi ultimi esplicitamente citati da un altro singolo, Talking Heads appunto, che insieme a Crows Perch non è finito nel disco di 9 tracce soltanto. Ma dentro questo grande minestrone di generi che è Schlagenheim trovi anche Led Zeppelin, King Crimson, Van Der Graaf Generator, un pizzico di Dream Theater e molto altro, il tutto freneticamente, nervosamente, acidamente rivisitato e corretto. Non c’è un genere sotto il quale ricondurre il disco: già questa è una notizia ghiotta. Che i Black Midi stiano facendo nascere un nuovo genere, una sorta di post-prog e post-metal, finalmente arricchendo il nuovo millennio di qualche vera novità musicale? Troppo presto per dirlo. Certo è che i quattro sanno suonare, sono dei virtuosi, e il nome l’hanno scelto proprio in riferimento a delle sperimentazioni che circolano in Giappone ad opera di cosiddetti blackers nei confronti delle basi MIDI. Certo è anche che al momento la loro musica è cacofonica, cercano apposta il rumore e i cambi di ritmo e melodia, accordi dissonanti e riff distorti e stonati, quasi che tutto, compreso il loro cantare (sono in tre ad alternarsi alla voce), possa essere funzionalmente nervoso e isterico. L’album può affascinare, anche piacere, ma solo come apprezzamento dei tecnicismi e dello sforzo di essere originali nonostante le tante implicite citazioni. Difficilmente l’ascoltatore potrà trovare però conforto melodico, o refrain da canticchiare, o anche un solo assolo o riff o passaggio vocale da memorizzare. Il che, a seconda dei gusti, può essere oggi considerato un pregio o un difetto.
In ogni traccia c’è questo sperimentalismo istrionico: l’esordio di 953 è con un riff tutto sommato leggero, ma la batteria va volutamente per i fatti suoi, per poi cambiare ritmo al pezzo: una genialata, senza dubbio, ma ben poco orecchiabile. Il singolo Speedway vede il ripetersi di una strofa lobotomica e parlata ma non cantata, su cui il riff melodico è sostenuto dalla batteria (il talento senza dubbio più marcato di questa band). Reggae è un pezzo un po’ più convenzionale, ed è forse quello che ricorda da vicino lo stile di canto/parlato e le melodie dissonanti dei primi Talking Heads, mentre Near DT MI comincia con un attacco molto hard rock, su cui si innesta un parlato sorretto da arpeggi di chitarra che ricordano Jimmy Page, e invece Western presenta arpeggi tradizionali, piuttosto armonici, quasi da ballata country, che la voce pare voler seguire ordinatamente nel canto, ma ecco che al minuto 1.35 il ritmo cambia, anche se la struttura del pezzo rimane quella forse più vicina allo standard classico di canzone. E infatti anche la voce, che fin qui non campeggia molto, è in questo pezzo (quasi) classicamente cantata.
Colpisce dello sperimentalismo dei quattro di Londra anche il poco ricorrere a synth, effetti, elettronica: il disco ha un che di sapore vintage anche per l’uso integrale e integralista di chitarre bassi e batteria. Gli unici suoni e sottofondi di tastiere compaiono appena nella traccia 6, Of Schlagenheim, mentre BmBmBm ha un progredire iniziale tipicamente hard rock, scandito da attacchi di chitarra su cui la voce recita ma, di nuovo, non canta, alla maniera ancora una volta di David Byrne. Poi, la canzone si dipana in autentico, voluto, puro e ricercato noise, tanto da far apprezzare la scelta coraggiosa della band e dell’etichetta di produrlo come singolo. Years Ago estende questo noise all’estremo, fino a cercare il disturbante, ed è in questo senso il pezzo più rappresentativo del non-genere dei Black Midi, laddove l’ultima, Ducter, quasi sembra un ravvedimento, cercando un arpeggio e una linea di canto/parlato più melodica, o quantomeno più tradizionale.
Tutto il disco sembra insomma avvolto in un’atmosfera onirica, ma da sogno agitato e convulso: si potrebbe parlare di musica kafkiana, addirittura, ma forse è meglio mantenere citazioni e riferimenti per i prossimi lavori della band, dove sicuramente si capirà dove va a dipanarsi l’indiscutibile talento sperimentale. Intanto, li si può ammirare a Torino il 30 ottobre, e la prova live resta importantissima per capire se il neo-gruppo è alla fine puro manierismo o ha anche un’anima e un cuore solido. Di certo, sentiremo ancora parlare di loro e del loro coraggiosissimo esordio.
https://bmblackmidi.com/
https://www.facebook.com/blackmidi/
autore: Francesco Postiglione