Gli Afterhours – e questo l’avreste dovuto capire già da un bel po’ – non sono più quel gruppo che si presentava sul palco con vestitini da bambina, codini e occhiali improponibili. Gli Afterhours sono quelli che qualche hanno fa si separarono (o viceversa) da un chitarrista geniale come Xabier Iriondo, e si, l’abbiamo capito, non c’è bisogno di ripeterlo allo sfinimento, che ora “non sono più la stessa cosa”. Gli Afterhours sono quelli che i più snob tra di voi ormai non sopportano più (o, probabilmente, non hanno mai sopportato). Perché sono un po’ presenzialisti, perché ormai li conosce anche il fruttivendolo sotto casa, perché Manuel Agnelli è antipatico, perché le loro canzoni le cantano anche le ragazzine di quattordici anni e voi non potete mica mettervi al loro livello.
Però fatevi un favore. Abbandonate i vostri pregiudizi e per una quarantina di minuti concedetevi a questo disco. Immergetevi nelle sue canzoni come si fa nel mare di notte. Quando l’acqua è una misteriosa distesa nera, e il non riuscire a vedere il fondo vi da’ quella particolarissima sensazione di paura e d’eccitazione. “Ballate per piccole iene” è così: scuro ed emozionante, denso ed avvolgente.
Canzoni penetranti e potentissime (“La vedova bianca”, destinata a diventare un classico, c’è da scommetterci), cariche di disillusione (“Ballata per la mia piccola iena”) e di chitarre taglienti e tirate (“E’ la fine la più importante”); ballad tenebrose squarciate da melodie memorabili (“Carne fresca”), o cariche di tensione pronta ad esplodere (“Il sangue di giuda”). Canzoni che mantengono intatta un’imperturbabile eleganza anche nei momenti più incazzati. E’ la “maturità”, direbbe qualcuno…
Il suono del violino è finalmente sfruttato al meglio delle sue potenzialità espressive, donando agli arrangiamenti ancor più spessore e pathos. La voce di Agnelli è sempre più versatile (si ascolti “La sottile linea bianca”, dove si passa dal più sottile falsetto ai vocalizzi più aspri e rochi). Le ottime frequentazioni internazionali coltivate negli ultimi tempi le ritroviamo come preziose presenze aggiunte: Hugo Race, John Parish (come musicista e dietro al banco mixer) e Greg Dulli (che suona di tutto, oltre a comparire come co-produttore artistico) aggiungono il loro tocco ad un disco che – probabilmente – sarebbe stato bellissimo ugualmente, illuminato com’è da un’ispirazione purissima.
Autore: Daniele Lama