E’ possibile identificare/isolare il “pubblico” post-rock? No, non siamo un laboratorio scientifico, nè stiamo lavorando alla prossima puntata monotematica di Quark, però ogni volta che abbiamo avuto a che fare con quello che sembra essere, tra i generi musicali, “l’innominabile”, non ci è mai passato per la testa di scendere più nello specifico della trattazione di questo fenomeno e dei suoi fans.
In effetti questo genere-non-genere è sempre stato caratterizzato da una certa indefinitezza, “figlio” di considerazioni residuali che ne fanno una sorta di non-essere-qualcos’altro. E il pubblico? Indefinibile anch’esso, almeno secondo coordinate estetiche. Morale della favola: quello che può sembrare un fenomeno “insipido” e senza speranze di lasciare un segno campa da ormai 10 anni, senza l’apparente rischio che possa passare di moda (ma stancare sì, in certi casi), svincolato com’è da elementi particolari e, per questo, inevitabilmente legati a una dimensione di transitorietà.
Ecco quindi che un gruppo come gli Ativin (sì, o voi meridionali come, leggetelo velocemente con l’articolo, questo nome – ne esce un imperativo non proprio carino) può permettersi di suonare come se il calendario fosse fermo più o meno al 1998 senza dare adito a particolari lamentele.
La qual cosa ce l’aspetteremmo più da una band che adesso muove i primi passi. Invece gli Ativin (e mi scappa di nuovo da ridere…) vanno per la decina d’anni, e sembrano essere tornati (due chitarre e batteria, occhio) all’archetipo di un sound granitico, scarno e muscoloso dopo una parentesi “quasi” cinematico-ambientale. Le squadrate e angolari geometrie chitarristiche di Dan Burton e Chris Carothers sono i fendenti di due sciabole in un duello scandito dal drumming secco e incisivo di Mark Rice. Quando il muro di riff che si erge è fitto, si ostruisce il passaggio a un’emotività “tiepida”, per farsi imperiosa espressione di temi “duri” (anche se non, oddio, fino al livello annunciato: stadi terminali di vita, letteratura dell’orrore e altre amenità). Quando invece il muro si sgretola e sprazzi di drones, arpeggi e perfino – in ‘Saigon Slleps’ e ‘The Game’ – voce esorcizzano il senso di claustrofobia, il discorso musicale del trio a stelle e strisce va maggiormente a confondersi con quello di tanti altri connazionali, secondo una dinamica quasi esplicitamente derivativa (a momenti sembra di star ascoltando una band catanese o roba del genere…). E allora sì, 2004 meno 1998 fa sempre 6 ma comincia già a pesare di più…
Autore: Bob Villani