“Una Bussola per Bandiera” è la perfetta crasi tra l’acquisizione e la ricerca di un orientamento e di un’identità; elementi, questi, necessari nella vita e per la vita, ma troppo spesso, purtroppo, assenti perché negati da malevoli contingenze.
Ed è seguendo queste direttrici, che si snoda il viaggio, al contempo interiore ed ecumenico, di Simone Sibilio, inoltre traduttore e docente di Lingua e Letteratura araba alla Ca’ Foscari di Venezia, intrapreso con la sua prima raccolta di poesie “Una Bussola per Bandiera” (edita da Di Felice Edizioni – Collana “Il Gabbiere”).
Sibilio, con esatto equilibrio, offre una scrittura tanto poetica quanto narrativa (“La notte ha partorito l’alba senza doglie/senza aggravio di spesa spesa/senza balie o fasce di cotone/sola,/ha reciso il cordone ombelicale del viaggio…” – da “Il dono”; “Quel fetore di vodka mi riportò alle nostre cene/in cui l’arak spegneva il fuoco di paprika,/le noci di cocco spaccate contro il legno,/l’amore schermato su palafitte rampicanti nel vuoto,/noi due ebbri di promesse e sogni./Strappati all’utero di nostra madre,/smarriti così presto,/al cabotaggio/con una torcia puntata addosso/mostrammo una bussola per bandiera” – da “Una Bussola per Bandiera”), una scrittura carica del lirismo proprio della tradizione letteraria Italiana del novecento a cui si aggiungono, nelle pieghe delle parole, colori e influenze della poesia araba contemporanea.
Al Caffè Hafa
“Non li ho persi i tuoi occhi al Caffè Hafa
tra i fumi meticci di viaggi impensati
e le pieghe del vento sullo scialle cobalto,
seguivano con me la stella incendiata dal faro
la linea incerta dell’orizzonte,
la terra menzognera oltre l’acqua.
Orfani come me su rotte senza nome
i tuoi occhi
rivolti alle gole del mito, alle storie usurate.
E più giù la città ci cascava addosso con l’ansia ferina di chi attende la preda
per poi ghermirla per i fianchi
stirarne gli arti
e fissarla al cemento.
Non li ho persi i tuoi occhi al Caffè Hafa,
e ora che li leggo accanto allo specchio
li sento tuonare
come l’ultimo assalto sferrato dalle onde
in quel luglio fatale.”
E in occasione della pubblicazione di “Una Bussola per Bandiera”, abbiamo posto alcune domande al suo autore.
FO – Nella prefazione di Vicenzo Mascolo si legge: “Simone Sibilio riunisce nei suoi versi alcuni topoi poetici universali (il viaggio, il nostos, la nostalgia, la perdita, la morte) per esprimere il suo sentimento del tempo e il disorientamento che prova di fronte alle distorsioni della nostra epoca, per denunciare poeticamente il progressivo affievolirsi del senso etico e il diradarsi dell’humanitas”. Un contemporaneo “Ulisse” quindi, che però cala il suo “nostos” in una ben più drammatica condizione esistenziale, tanto individuale quanto universale. Da dove nasce questa sua esigenza di raccontare e denunciare “il progressivo affievolirsi del senso etico e il diradarsi dell’humanitas” e, da studioso, quali sono di tale declino le peculiarità da attribuirsi alla nostra epoca rispetto alla sua, comunque, radicata esistenza storica?
SS – “Questa definizione del prefatore, il poeta Vincenzo Mascolo che ringrazio per aver colto lo spirito, l’indirizzo e l’obiettivo di questo lavoro, immagino sia stata suggerita dalla lettura della prima sezione della silloge, Nel canto, ispirata dal dramma dei migranti, che è il motivo cardine attorno a cui è costruito il volume. Qui ho provato a dar forma a un canto polifonico e contrappuntale, riunendo esperienze e voci che si levano insieme senza gerarchie e un ordine predefinito, e che lette insieme esprimono anche sentimenti e visioni contrapposte. È una sinfonia di vita e morte, passato e presente, diretta da un unico maestro, che è l’esperienza dell’attraversamento. Si tratta di visioni e memorie, alcune frutto dell’immaginazione, altre ispirate da storie vere o letture: sono loro le protagoniste autentiche del canto, queste voci simili, ma diverse con le loro sensibilità e specificità, il loro abbandono, i loro dubbi, domande, speranze e paure, sono voci uniche in movimento, lungo le rotte di un viaggio reale e immaginario, fisico o spirituale e contemplativo. Dove l’approdo è visto con un ribaltamento di prospettiva: è un dono questo arrivo, perché è nostro dovere aprire le porte del mare alla vita che arriva, aprirle all’ospitalità, alle ragioni profonde di chi è stato costretto a lasciare terra e famiglia, gettandosi tra le braccia del malaffare e tuffandosi nelle onde del destino, per tentare altre vie di sopravvivenza.
Non si tratta di un nostos inteso come mitologema odisseico, archetipico del ritorno in patria dell’eroe, spinto dalla nostalgia per la terra natìa e l’amata, ovviamente. Ma di un altro nostos, di un altro racconto, di altri eroi. Un nostos sur-moderno che pure affonda radici e immaginari negli albori della storia. Perché la migrazione per sfuggire alla morte o migliorare la propria vita è un fenomeno d’ogni tempo e non impedibile né ostacolabile per quanti muri si possano issare. Interrogare gli attraversamenti e i nuovi transiti significa porsi diverse domande correlate a questa sul rapporto noi / altri, quella su appartenenza e identità, quella sul rapporto tra centri e margini, tra storie e contro-storie. In fondo, sono domande che attraversano le altre due sezioni della silloge: Ancora lì, oltre i margini e Luoghi non Luoghi.
L’esigenza di denuncia, di dire poeticamente questa parte così cruciale del nostro tempo, nasce dal sentimento e dalla riflessione che questa è un’occasione decisiva per la nostra comunità globale, ma in primis occidentale, per rivoluzionare i nostri modelli e il nostro mondo basato su privilegio e dominio. E ciò perché dalla globalizzazione finanziaria ed economica si è preteso di escludere l’aspetto centrale, ossia l’attraversamento e la reciprocità tra comunità umane: hanno diritto a muoversi capitali e merci, non gli esseri umani, quelli provenienti da aree e terre che abbiamo depredato e contribuito a devastare o destabilizzare; soggetti che restano in un limbo di non riconoscimento ed estromissione, oppure di emarginazione sociale, politica, di alienazione. Lì sono le radici di molti dei conflitti del nostro tempo. Comunità ampie costrette a elemosinare il diritto alla vita e a chiedere permesso ad altri di esistere”.
FO – Oltre ai numerosi testi di traduzione di poesia araba che ha curato, tra le sue pubblicazioni è, del 2015, anche “Nakba – La memoria letteraria della catastrofe palestinese”. Quanto i suoi studi letterari e la sua diretta esperienza con il lato più doloroso della storia e dell’attualità del Medio Oriente (questione palestinese su tutte, ma anche la “primavera araba” e la guerra civile siriana) hanno influenzato gli scritti raccolti in “Una Bussola per Bandiera”?
SS – “Sicuramente il mio campo di studi, la mia formazione, sono alla base della mia scrittura. Non è peregrino affermare che il bagaglio di esperienze e conoscenze maturate attraverso i viaggi e gli studi abbia fondato o nutrito un certo di tipo di sensibilità o di visioni rintracciabili in questi testi. Sia il dramma storico dei Palestinesi che quello più recente siriano trovano spazio in questa raccolta, in modo sia esplicito che indiretto. L’esperienza palestinese è presente in almeno due poesie, frutto di due viaggi compiuti in momenti diversi: Abu Dis, un paesino alla periferia di Gerusalemme recintato dal muro di separazione israeliano e Lì, sulla porta damascena, che è la porta principale della città vecchia di Gerusalemme, un luogo saturo di storia, di segni e di tensione dove è facile riconoscere la topografia del potere che marca quel territorio. Sulla sua soglia ho scritto: «Lì dove una porta si chiude, una vita si apre». Anche qui si tratta della vita di altri che si battono per il riconoscimento, per il diritto ad una vita degna”.
FO – “Una Bussola per Bandiera” è una raccolta di poesie che, sicuramente, avranno avuto diversa gestazione tra loro, per tempi e luoghi. Da una lettura in ordine progressivo delle stesse, così come disposte sul libro, sebbene si avverta un sottile senso di “mutamento”, questo sembra attenere più a una sfera emotiva che a una cifra stilistica. Qual è stata la genesi delle singole poesie e la loro successiva organizzazione editoriale?
SS – “La domanda è intrigante perché interroga i meccanismi di prima scrittura, e poi di rielaborazione e organizzazione dei testi, dunque anche quelli di inclusione ed esclusione che appartengono ad ogni opera creativa. In parte ho già risposto sopra, quando dico che la composizione di quelle voci e visioni non rispetta una gerarchia, se non quella legata alla volontà di differenziazione, al tentativo di organizzazione del flusso ‘narrativo’ come un’onda con frequenze diversificate. Anche sul piano formale ho tentato di riflettere l’idea di diversità, alternando più forme, poemi lunghi a più brevi, monologhi interiori a poesia in prosa, ma sempre nel rispetto di una visione di musicalità insita nel mio modo di intendere la poesia.
Più in generale, l’idea alla base del progetto era quella di porre in questione il discorso identitario attraverso diverse traiettorie, mettendo in crisi le identità fisse e cristallizzate da discorsi e narrazioni, e le presunte alterità.
Avevo dunque in mente un progetto il più possibile organico sul piano tematico e dell’intenzione, e invece più variegato sul piano formale. Questo mi ha portato a mettere insieme testi più recenti (quelli della prima sezione) e testi più datati (delle altre due) ma che nella mia visione rispettavano lo spirito della raccolta, costruendo binari paralleli. Dal canto di voci altre con i loro nomi e le loro storie, vite umane escluse dal discorso pubblico perché rappresentate come masse ridotte a stereotipo, come problema sociale e politico o al contrario come problema umanitario, si passa alla questione del margine: qui il rapporto con l’alterità, con le esperienze dei mondi degli altri, viene riproiettato sotto una luce diversa, guardando al concetto di margine, di storie escluse ed estromesse. Le identità sono scandagliate sotto altre ottiche: una centrale è il luogo, i nostri luoghi, ma anche luoghi altri nel mondo, dalle identità complesse o contese. Si tratta dell’ultima sezione che è quella più personale, è il mio sguardo su città del vissuto, qui risiede la mia esperienza privata, sono luoghi a me familiari, che reinterrogo sotto un’ottica particolare, controversa e perturbata. Sono rappresentazioni inquiete, mai serene, che puntano alla messa in discussione di ogni visione o discorso ereditato, ogni rappresentazione consueta. Si tratta di venire a patti con le ombre, con lo scuro non con il chiaro marcato dalla bellezza travolgente che queste città ‘imputate’ offrono. È uno scavare sotto le apparenze e dentro l’idea stessa di appartenenza”.
FO – “Una Bussola per Bandiera” esce nel 2021 in formato cartaceo, in un’epoca in cui la modernità liquida ha invaso tutti i campi, con un violento impatto sulle arti. Quale è la sua visione della poesia e della scrittura in generale, nel loro rapporto con la contemporaneità socio-culturale che stiamo vivendo?
SS – “Il nostro è un tempo della moltiplicazione di canali e possibilità, di strumenti e forme. La scrittura contemporanea indubbiamente riflette la pluralità di visioni e immaginari e la complessità di fare i conti con questo presente sfuggente e problematico, nel quale il sistema culturale è sempre più sollecitato da sfide inedite, in primis la comunicazione e la promozione delle opere, sconvolte dall’irruzione del web 2.0 che sembra aver creato uno spazio parallelo sempre più autonomo e auto-governato. Credo, contrariamente a quanto si percepisca pubblicamente, che la poesia nel nostro paese stia vivendo già da diversi anni un momento di grande effervescenza ed eterogeneità di forme e stili, un dato in contraddizione con la sua lampante assenza nello spazio pubblico e nei media. E questa è dovuta a una serie di ragioni che non possiamo approfondire qui. Ad ogni modo sembra esserci una rinascita della stessa poesia civile o di impegno sociale e questo è a mio avviso segno di salute. Non è possibile qui fare elenchi di nomi, data la vastità del panorama, ma alcuni temi di fondamentale importanza sollevati da poeti di spessore come Buffoni, Calandrone, Gualtieri e da molte altre ed altri della successiva generazione dimostrano che la poesia sa dire il nostro tempo e farlo con un linguaggio raffinato, creativo, e con il dolore dell’esperienza.
C’è al contrario ancora chi si batte e crede nell’idea che la poesia debba essere circoscritta entro il perimetro del sentire individuale, percepito come assoluto e unico, c’è chi crede nell’isolamento della poesia dal mondo, dalla società, dall’esperienza, e quindi dalla vita. Ma la poesia è l’arte più antica della civiltà umana, in grado di dire l’umano nella sua varietà e complessità, e non può essere confinata dentro steccati precisi. Trascende le presunte leggi di un sistema chiuso, elitario, per pochi eletti che si autoregolamentano con le loro idee e visioni estetiche dominanti o con le loro definizioni che fissano le barriere tra poetico e antipoetico, tra linguaggio comunemente accettato e quello reputato inammissibile. E questo non sempre avviene sotto la spinta della critica letteraria di tendenza. La poesia è un mondo molto più disponibile e aperto di quello fissato da regole passeggere, da criteri instabili o convinzioni auto-legittimanti.
FO – Un pregio indubbio di “Una Bussola per Bandiera” è che, sebbene nelle sue poesie si tocchino tematiche importanti, spesso drammatiche, emerge, in contraltare, un senso di speranza. Questo bilanciamento è anche nella semantica e nel rapporto sintattico; per tutte mi viene in mente “Mamadou”, un’altalena di immagini e di riferimenti: alla vita come partita di pallone “Mamadou in spaccata sulla linea della porta, respingeva la minaccia, sulla soglia della vita”, alla religione come fede “rendeva omaggio a Dio” e alla religione come invenzione umana “il pane moltiplicato dalla leggenda” in contrasto con la realtà “centellinato nella realtà”. Quale speranza è all’orizzonte per l’umanità, immersa nei mali che essa stessa si procura?
SS – È una lettura attenta e corretta, di cui le sono grato. Ho provato a illuminare la vita, sempre, il suo battito è oltre ogni nube o abisso. Il filo che lega la vita alla morte è sottile, e credo che questo rapporto stridente e sospeso emerga dalla prima sezione. Ma la vita è predominante se si guarda al percorso tracciato, dalla poesia d’apertura alla chiusura della prima sezione: “Nel canto” è un omaggio alla vita che non può che giungere se non dal confine con la morte. La vita è quanto risplende da quelle visioni e quelle storie, anche cupe e dolorose; sono vita le loro voci e le loro storie, non sono numeri, dati né folle accalcate, ma persone. In cammino per la vita. La religione, la sua ricerca o la sua assenza è parte della vita e del sentimento di ognuno di noi e seppur centrale in molti popoli e comunità, non sfugge alle domande, al dubbio, alla dolorosa ricerca di una verità sulla propria esistenza. Quanto alla speranza, può venire da una presa di coscienza diversa sul senso del vivere insieme, sulla comunità umana, nella sua diversità e complessità, che abita il nostro stesso spazio. E questa speranza si scontra con la volontà politica e l’orizzonte prefigurato da chi rende questo pianeta sempre più diviso e retto su diseguaglianze e iniquità, sullo sfruttamento ed esclusione di ampie comunità. E la speranza, come scriveva il grande poeta palestinese Mahmud Darwish, viene coltivata quando si è “sotto assedio”, come “fanno i prigionieri o i disoccupati”. Quella vita rappresentata è un grido di speranza, forse, sulle possibilità di riscatto, di nuova immaginazione, di coltivare ognuno la propria utopia”.
Maria Viscardi