In questi anni dominati dalla musica usa e getta che viene spesso fruita attraverso un ascolto distratto, quasi sempre corollario di un video su Tik Tok oppure su di una delle tante stories di Instagram, approcciarsi alla musica d’autore, scegliendo dischi di artisti che meriterebbero ben altre fortune, può sembrare alquanto anacronistico.
Eppure, la musica d’autore in Italia ha sempre avuto grande eco che si trattasse di passare attraverso il Festival di Sanremo, oppure presenziare stabilmente nelle classifiche di vendita, non faceva alcuna differenza.
Oggi non è più così perché come tutti sappiamo, dominano gli artisti prodotti dagli show televisivi insieme ai nuovi (?) linguaggi per i giovani come l’inconsistenza della trap.
Ecco allora che parlare della musica di artisti come Paolo Benvegnù, Umberto Maria Giardini o Paolo Saporiti, solo per citare tre artisti che di recente, con grande caparbietà, hanno pubblicato dischi di grande spessore, può sembrare anacronistico quasi come intestardirsi a volere svelare i segreti meglio custoditi della musica italiana.
Nonostante sia arrivato a pubblicare il nono album, Paolo Saporiti rimane un musicista sconosciuto ai più nonostante un percorso artistico sempre incentrato su di una qualità medio alta che si conferma, anzi si amplifica con questo suo nuovo disco.
“La Mia Falsa Identità” (OrangeHomeRecords/Believe Music Italia) è un’opera monumentale che di primo acchito potrebbe spaventare l’ascoltatore, con i suoi venti brani, a volte impegnativi anche nel minutaggio, divisi in due capitoli: “Lo sfratto” e “La Zattera”. Il primo è inteso nell’accezione canonica di “estromissione delle persone da un domicilio” ma racconta anche di un dolce tipico di Pitigliano, la ‘Gerusalemme toscana’, realizzato a forma di piccolo bastone, per ricordare l’oggetto che il messo governativo usava per segnalare agli abitanti – bussando appunto alle porte – che era giunta l’ora di raggiungere il resto della comunità, nel ghetto, durante la cacciata del XVII secolo. I pasticcieri pensarono così di creare un dolce che potesse tenere viva quella memoria; il secondo capitolo invece cita il quadro di Géricault ‘La zattera della Medusa’ (1818-19) in cui è rappresentato il naufragio della Medusa. Un caso che fece grande scalpore all’epoca di una nave naufragata davanti alle coste francesi. I sopravvissuti si abbandonarono ad atti di cannibalismo, nel nome della sopravvivenza.
Due capitoli che possono anche essere approcciati singolarmente ma che costituiscono un unicum musicale nel quale occorre immergersi con una dedizione totale, con ascolti ripetuti per cogliere non solo la bellezza delle musiche o la profondità dei testi, ma per apprezzare in pieno il lavoro di tutti i musicisti coinvolti: Alberto Turra (chitarra) e Lucio Sagone (batteria) già insieme a Saporiti nell’esperienza Acini Live uniti al produttore Raffaele Abbate, che ha rivestito di elettronica le canzoni, ed al violoncellista Stefano Cabrera (Gnu Quartet) che ha curato le magnifiche orchestrazioni dell’album. Su tutto questo la voce di Saporiti modulata con una serie infinita di variazioni, che sia suadente o aggressiva, sofferta o ammaliante, raggiunge uno status di strumento aggiunto che impreziosisce ogni singola canzone.
Difficile scegliere se segnalare un brano piuttosto che un altro, ciascuno con le sue peculiarità sonore (L’oboe di Mario Arcari nel brano ‘Un sogno ancora da inventare’ o lo Gnu Quartet al completo in “L’Autobomba”) e diversi stili affrontati come il blues elettrico di “Vince lei” o le sferzate elettriche che infarciscono “La Versione di Penelope”. La bellissima “Grandi Verità” che apre il disco e mette sul piatto le coordinate che si susseguiranno brano dopo brano.
Il disco è un viaggio personale che l’autore fa nel suo vissuto, nella sua storia personale, dove si passa dall’elaborazione del lutto alla ricerca di una serenità che metta fine alle sofferenze passate come il tragico episodio, in particolare, che ha segnato la famiglia Saporiti: nel 1956 a Busto Arsizio (Va) un pazzo assassinò i due bisnonni e il fratello del nonno di Paolo nel loro panificio, un lutto che ha attraversato più generazioni, causando dolore e sofferenza, che l’autore racconta con delicatezza nella sognante suite “Sei bellissima / La dignità di Elena”, uno dei brani più intensi del disco, impreziosito da un fiabesco video clip animato, opera di Marta Reina.
Altro brano cardine, tra i tanti, è “Falce Nera” dal testo molto complesso in cui l’autore immagina una bimba che dialoga con la Morte e la Natura già consapevole dell’autodistruzione cui l’umanità si consegna consapevolmente.
Man mano che si procede con i ripetuti ascolti di questo disco se ne coglie la complessità del lavoro di squadra con cui è stato costruito quello che è, per stessa ammissione dell’autore, il suo “disco definitivo” perché non solo è un lavoro sincero ed autentico come quelli che lo hanno preceduto, ma perché rappresenta la zattera con cui navigare in un mare di musica mediocre che ci vorrebbe tutti omologati verso il basso, a meno che non si abbia voglia di cercare quel qualcosa di meglio che quasi sempre è nascosto, ma che a cercare bene si trova anche facilmente.
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