Si dice spesso di una coppia che il settimo anno è quello più critico da superare indenni. Che si creda o no a questa bizzarra previsione, il settimo album in studio degli statunitensi The Decemberists, “What a terrible world, what a beautiful world”, rappresenta, se non una crisi, un mezzo passo falso.
Il sospetto che non si stia ascoltando un capolavoro lo si ha già dall’apertura. “The singer addresses his audience”, del resto, mette subito le mani avanti “lo abbiamo fatto per voi” (per i fan, nda). Autobiografia che quasi sfocia nell’autoreferenzialità con “Anti-summersong” nella quale il cantautore di Portland dichiara candidamente che non si appresta più a scrivere di suicidi o simili come faceva un tempo (chiarissimo riferimento a “Summersong” presente in The Crane Wife). In “Cavalry Captain”, i The Decemberists si riappropriano di quel sound corale e ben orchestrato che li ha sempre caratterizzati.
Il primo singolo estratto dall’album, “Make you better” ha quasi tutte le caratteristiche per essere una hit di successo. Non solo grazie ai toni armoniosi offerti dai cori di Kelly Hogan (Neko Case, Andrew Bird, Minus 5) e Rachel Flotard (Visqueen), ma anche e soprattutto per il sapiente uso della pedal steel guitar e di un ritornello assai penetrante.
“Till the Water’s All Long Gone” con il suo seducente riff di chitarra e “Better not wake the baby” dal banjo molto caratterizzante, sono tra gli spunti più interessanti dell’album che quasi dimentica, almeno per i primi dodici brani, l’armonica, spesa in apertura di “12/17/12”, una ballata malinconica che contiene il verso che dà il titolo all’album.
Il loro storico sound barocco, Vittoriano, mai banale è sempre stato caratterizzato da una scrittura ricercata, arrangiamenti divertententi e unici. Nemmeno il grande salto verso una major come la Capitol Records (con cui ormai sono al quinto disco, dopo aver autoprodotto il primo EP e i successivi con l’indipendente Kill Rock Stars) aveva mutato o ostacolato il loro percorso artistico. In questo settimo disco, però, non c’è quell’atmosfera da live che pure si stava facendo strada negli ultimi album, né quella raffinatezza e ricerca stilistica.
Un album che, tutto sommato, sembra essere un’involuzione dei nostri. Una retrospettiva poco riuscita. Un guardarsi allo specchio e piacersi ma restituendo un’immagine dai contorni sbiaditi. Un disco, in definitiva, che delude le aspettative di chi li ha seguiti dagli albori ma che può verosimilmente rappresentare un delicato e gradevole approccio per il grande pubblico.
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autore: Luigi Oliviero