Sono ormai passati quasi sessant’anni, da quando Walter Benjamin scrisse il suo celebre “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ed in questi decenni tale riproducibilità tecnica ha raggiunto ben altri livelli, grazie alla diffusione di massa delle tecnologie digitali. Una trasformazione, quest’ultima, che sta per raggiungere un ulteriore livello, espandendo il campo delle sue possibilità in direzioni non ancora del tutto esplorate. Basti pensare che, ad esempio, l’irruzione sul mercato quasi di massa (ma è questione di poco tempo perchè lo diventi appieno) delle stampanti 3D, apre molteplici prospettive per gli artisti che lavorano con la scultura e/o l’installazione, laddove l’impatto di questa tecnologia consentirà – da un lato – la producibilità a costi contenuti di opere fin qui a costo elevato, e – dall’altro – la riproducibilità seriale delle opere.
Il passaggio dalla fonderia alla stampa 3D, potrebbe quindi segnare un ulteriore passaggio di boa anche in campo artistico.
Ma la questione vera, già attuale, è piuttosto un’altra, e riguarda il complesso delle arti visive, non soltanto quelle di nuova produzione.
C’è una accellerazione della techne, che ha già mutato gli scenari, e che però stenta ad essere raggiunta dalla società, quanto meno nelle sue forme istituzionali, e più generalmente nella propria consapevolezza di sé.
Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione digitale, soprattutto negli ultimi anni, ha avuto un’impennata considerevole, che ne ha prodotto in relativamente poco tempo uno straordinario incremento delle capacità di trasmissione. Ciò si è riflesso non solo sulla velocità, ma anche sulla quantità di dati trasmessi, e quindi – trattandosi appunto di digitale – ne ha determinato l’innalzamento del livello qualitativo.
Più informazioni (bit-data), di maggiore qualità, a più elevata velocità.
Questo salto determinato dall’innovazione tecnologica, va ad incidere su un complesso di questioni (sociali, culturali, ma anche economiche) relative – anche – al mondo dell’arte. In particolare, riguardo a quella che ne è l’istituzione simbolo, il museo.
Già da tempo, soprattutto in quei paesi dove il dibattito culturale è più centrale, ci si interroga su come questa istituzione subisca le trasformazioni imposte dal mondo moderno – ed anche, appunto, come possa non semplicemente subirle, ma anticiparle, o quanto meno accompagnarle, trasformandosi profondamente.
Come faceva giustamente notare il critico Philippe Daverio*, a proposito della recente mostra bolognese de ‘La ragazza con l’orecchino di perla’ di Vermeer, oggi è possibile vedere quel capolavoro molto più comodamente, e molto meglio, su Google Immagini piuttosto che dal vivo, dove è possibile soltanto “osservarla dietro a un vetro, fra gli spintoni”. E non è un caso che alcuni musei hanno avviato programmi di digitalizzazione delle proprie opere più importanti, rendendole disponibili online in alta definizione.
Siamo dunque, di fatto, già entrati nell’era della fruibilità ubiqua dell’opera d’arte.
Questo è quindi il nuovo paradigma, che cambia alla radice non solo l’idea di museo, ma più in generale quella del rapporto tra l’uomo e l’arte. Ma se questo processo non viene in qualche modo governato, il rischio è che si produca un’ulteriore impoverimento culturale, come paradossale esito dell’estensione e della semplificazione dell’accesso all’opera d’arte.
Al contrario, un uso consapevole delle opportunità offerte dalle tecnologie può aprire nuove strade per la crescita culturale – necessariamente passando, dunque, attraverso un adeguato rinnovamento anche delle istituzioni culturali.
L’istituzione museale, in modo particolare, oltre a superare il ruolo di mera conservazione delle opere d’arte, deve (re)inventare anche un ruolo educativo, sviluppando un dialogo intelligente e proficuo con gli strumenti digitali, e soprattutto mettendo in valore (in modo intelligente e creativo) quello che rimane l’atout ineguagliabile della propria offerta culturale: la possibilità dell’empatia con l’opera d’arte.
autore: Enrico Tomaselli