Quod me nutrit me destruit, potrebbe essere il sunto di questa piccola perla musicale dei Giardini di Mirò, vera e propria sinfonia dell’Arte che accompagna magistralmente un lungometraggio del 1915 di Giovanni Pastrone. Il Fuoco, appunto.
I Giardini di Mirò dopo l’esperienza di “Dividing Opinions”, decidono di intraprendere un nuovo percorso rimasto a lungo trascurato negli ultimi anni dalle band italiane. La sonorizzazione di un film è sembrata essere l’occasione migliore.
Nel corso del tempo la band di Cavriago non si è mai limitata alle dilatazioni post-rock, ma ha spaziato a 360 gradi con tutto quello che concerneva la musica di qualità e strizzando l’occhio arguto alle tendenze del momento, arrivando quasi a un punto di non ritorno.
Lo step successivo a “Dividing Opinions” sarebbe stato difficile, lo si sapeva, ed “Il Fuoco” si pone come un lavoro ambizioso ma mai presuntuoso e retorico, che cerca di fondersi completamente con il lungometraggio, dando spazio alla grande sperimentazione sonora che ha il merito non tanto di avere avuto trovate rivoluzionarie, quanto di aver avuto una grande cura nei confronti del suono, dalle chitarre alle esplosioni elettroniche fino ai frammenti classici, delle trombe, del piano e degli archi, che rendono tangibile le atmosfere ricreate.
Vengono così dipinti paesaggi sonori al limite del possibile, che stridono e poi accolgono i fotogrammi del film che scorrono appassionati durante la sonorizzazione.
Il lavoro è diviso in tre grandi capitoli, così come originariamente il film: “La Favilla”, “La Vampa” e “La Cenere”, così come le tre disperate fasi dell’amore che consuma l’ingenuo pittore per l’ambiziosa poetessa interpretata da Pina Menichelli.
Un amore, nato morto, che fa avvertire il peso del suo triste presagio già all’inizio della storia, apparentemente spensierata e favolistica. Un amore consumato e bruciato in nome dell’arte da due artisti, e da un pittore dal cuore puro che perde e ritrova per poi riperdere l’ispirazione, la propria stabilità e la ragione, rinunciando per sempre a sé stesso e arrendendosi allo stato delle cose in una misera umiliazione pubblica. Tutto per colpa di un amore sbagliato.
I sette brani che compongono la “Favilla” si dividono tra il refrain guida e gli archi che si confondono dietro le pareti sonore creati dalle fosche chitarre che sembrano quasi accompagnare una marcia funebre, quasi come se volessero smentire le immagini di un amore che sta nascendo.
Magistrale il ponte che si crea tra “La Favilla xxxxxxx” e “La Vampa 8”, un totale di 10’39” di puro orgiastico delirio d’onnipotenza castrato in extremis dalle atmosfere grottesche create dal sintetizzatore elettronico che spianano lentamente la strada tra inciampi kraut e industrial in un ennesimo crescendo palpitante che imbocca la strada verso il secondo capitolo dell’opera.
La “Vampa” è un deserto senza tempo che spiazza per la velocità con cui rapisce e annienta tutte le certezze raccolte fin’ora. Tre brani veloci e appassionati come qualsiasi folgorazione d’amore. Con continui saliscendi il frammento dipinge l’intreccio anarchico tra gli archi stanchi e i turbini elettronici, destinati ad un brusco declino per accogliere la “Cenere”.
La tensione si attenua nonostante il battito spettrale della batteria che disegna emozioni moribonde nell’aria, brandelli di pelle ferita e illogiche anime tetre e inconsolabili aleggiano nell’aria, mentre il tormentato pittore prova con tutto sé stesso di annientare il desiderio nei confronti della donna-gufo che ha rovinato tutte le sue più pure prospettive di vita. È la fine. Quod me nutrit me destruit, sembra sussurrare l’artista.
La fine di un amore sbagliato, che ha lasciato solo cenere.
La tensione si dilegua come la nebbia, lasciando turbati, lasciando estasiati, lasciandoci davanti un paesaggio tanto desolato quanto ammaliante.
Uno dei lavori più coraggiosi e meglio riusciti negli ultimi anni. I Giardini di Mirò rivelano ancora una volta la loro forza di reinventarsi, di evolversi senza mai abbandonare i loro punti cardine.
La vedi la musica? Ora sì.
Autore: Kei Alfano