Che delle Azure Ray fosse l’anima più oscura lo sospettavamo, non foss’altro che per il nome. Battutacce a parte, l’esordio solista di Orenda Fink, come d’altronde quello dell’ex-sodale Maria Taylor (11:11), rivela delle potenzialità individuali che la formula dream-pop cominciava forse a soffocare. E allora ognuna per la sua strada, separate in casa. In casa Saddle Creek, ovviamente, tra amici di famiglia come Nate Walcott (Bright Eyes, The Faint, Rilo Kiley), Todd Fink e Dave Sitek (TV on the radio) a prestare la loro opera.
Invisible ones si presenta ricco di suggestioni esotiche e ancestrali provenienti dai quattro angoli del globo, un viaggio immaginario – ma neanche troppo – dall’America al Tibet, passando per l’Isola di Pasqua. Un viaggio interiore, anche, narrato dalla voce salmodiante di Orenda, che talvolta fatica a trovare una timbrica personale e si perde, per poi ritrovarsi perfettamente a suo agio in mezzo a un coro di voci haitiane. Il disco parte sotto i migliori auspici rock-wave, mettendo in fila tre gioiellini (due e mezzo, per la verità) spudoratamente smithiani (nel senso di Patti): ‘Leave it all’, emblematico inizio del viaggio, ‘Invisible ones guard the gate’ col suo piano dimesso e gli archi appena accennati e ‘Bloodline’. ‘Blind Asylum’ è una bella prova per voce e violini pizzicati, mentre ‘Les Invisibles’ inquadra alla perfezione la sensibilità musicale di Orenda, tra arrangiamenti à la Bjork e Cat Power, ma anche autenticamente se stessa: approdo definitivo di un lavoro che, forse, poteva pure finire qui e invece si trascina per altri cinque pezzi francamente non entusiasmanti e una scrittura ancora troppo indecisa tra le spigolosità del rock e le mille insidie della world music.
Autore: Rino Cammino