Non sarà profondo sud, ma quando te la aspetti una band dalla provincia di Salerno che scali le cronache indie almeno fino ad accostare – con contorni di indiscussa concretezza – il proprio nome a quello di una validissima indie label nazionale qual è la Urtovox? E invece tutto ciò accade: senza offesa per i vicini campani – direi altrettanto per buona parte del territorio meridionale, Sicilia, opportunamente, esclusa –, ma i contest nei pub, le cover band e i rutti delle consumazioni obbligatorie ci hanno abituati male, altro che pregiudizi.
Poi spunta una band così, 4 ragazzi e una fanciulla, chitarre e tutto il resto della strumentazione rock, e anche le famigerate tastiere – o meglio, il famigerato accoppiamento tra queste e le chitarre –, e allora nasce il sospetto che questa band, per non essere rimasta ancorata all’ambito poc’anzi dipinto, o è raccomandata – ma da chi, e soprattutto, perché qui e non presso i piani più alti? – o ha più di un minimo di “palle stilistiche” per fare da headliner nell’autunno di release dell’etichetta toscana.
‘Peter Pan Sindrome’, il singolo posto in apertura di disco – esclusi i 60 secondi strumentali di ‘Radio Tsunami’ – non lascia spazio alla prima ipotesi. Se i pezzi sono tutti così, la band ha classe da vendere: immaginate ciò che possono guadagnare band come Yuppie Flu o Slumber dopo una full immersion nei brani dei Beatles a marcata impronta McCartney. C’è tutto senza reciproci “pestoni ai piedi”: una partenza senza eccessivi indugi, melodie, una buona voce (Yuppie Flu?), un ritmo che non cerca il punk né diluisce i tempi, chitarre, arrangiamenti, e la malinconia di quelle ripide impennate di synth retrò in chiusura. Il singolo che sognavamo da sempre, forse.
I pezzi non sono tutti così, ma come fare di ciò un rimprovero? Un singolo è questo: una spanna artistica su tutti gli altri – e non un semplice biglietto da visita al mainstream – necessariamente di caratura almeno leggermente ridotta. Ma è anche difficile trovare un episodio che faccia storcere la bocca. La passione per i Beatles più “pianistici” (le tastiere le sentiremo quasi sempre su questo effetto) non si placa, ma Enzo Moretto e soci riescono a non farla diventare “bella calligrafia” e basta: ‘Elephant Man’ fa tornare alla mente le struggenti melodie confezionate da Dustin O’Halloran dei Devics (che, “by the way”, sta per uscire con un disco solista) al piano, ‘Modern Lucky Man’ è l’indie-rock elettrico e sbarazzino che può aver successo senza vendersi, ‘1000 Flaming Dragonflies’ getta un’occhiata interessata al post-rock d’oltreoceano più emozionale (Shannon Wright e Tara Jane O’Neil in primis, ma anche Blonde Redhead), il mellotron di ‘Asteroid’ è ciò che resta dopo che gli Unwound hanno lanciato il loro canto del cigno, senza dimenticare come in ‘Loco Motive’ si fossero udite addirittura delle trombe da frontiera messicana. Giusto per dire quanto un progetto del genere abbia ancora da dire. Vi sembra poco per una band italica al giorno d’oggi?!
Autore: Roberto Villani