I Disappears hanno sempre avuto una carriera controversa. Una parte della critica li ha spesso accusati di monotonia e ripetitività, data la loro ostinazione nel giocare su poche note per tutta la durata di una canzone. La corrente opposta, viceversa, li ha elogiati per il loro sound tenebroso e rarefatto, minimale ma contemporaneamente molto intenso. Nella nuova sfida dei Disappears, chiamata “Era”, si trovano le sonorità ormai tipiche dei quattro chicagoesi: canzoni strutturate su un riff essenziale che culminano in esplosioni fosche e dolorose, da collocare nel regno del post-punk, ma con retroterra krauto e garage.
La sola evoluzione nello stile della band, rispetto al principio della carriera, che emerge così in “Era” come nelle ultime uscite discografiche, è il progressivo abbandono di alcuni dettagli psichedelici in favore di un sound più duro e secco, che però non rende l’album tedioso o imbolsito.
L’esordio dei Disappears risale a sei anni fa, in quella metropoli industriale e assordante quale è Chicago, e da quel momento la band ha cominciato a produrre lavori discografici come fosse un juke-box a gettoni: ha inanellato, in poco più di un lustro, una decina di uscite.
Fin dall’inizio tutto il rumore post industriale si riversa nelle prime produzioni: il sound conseguente è un ambient inquieto e sinistro, essenziale ma saturo di espressività. Se il punto d’appoggio sono da subito i riff di basso o di chitarra, il piatto viene arricchito dalle ottime trame melodiche che si spingono nei meandri più cupi in ogni brano. La ciliegina, poi, è sempre la voce di Brian Case che in tono qua confidenziale, qua infuriato, qua rassegnato, intraprende lunghi soliloqui. Così gli album sfiorano le vette del post-punk dei Public Image Limited (impossibile non accostare il canto di Case a quello di Lydon), che per stessa ammissione dei chicagoesi incarnano un importante modello artistico dei Disappears. Le atmosfere ricordano i Joy Division di Unknown Pleasure, mentre le canzoni più martellanti sembrano uscire dalla discografia dei Wire, o in alcuni casi anche degli Swans.
Il compito di aprire “Era” è affidato a Girl, straziata dal cantato per tutti e quattro i suoi minuti, per poi proseguire con il riff ossessivo di Power e con l’alone di mistero di Ultra, ovvero nove minuti in pieno stile Bauhaus, che rende esausto l’ascoltatore. La trama più orecchiabile di Era, poi, permette di riprendere il fiato, per proseguire tuffandosi tra le distorsioni e le chitarre anni ’70 della frizzante Weird House e nell’ambient ai limiti della psichedelia di Elite Typical. L’ultima traccia è New House che chiude questo viaggio estenuante nella pece e nelle tenebre con un atteggiamento più mesto e, se possibile, ancora più angosciato.
I Disappears, dunque, si confermano più che mai testardi, proseguendo nel loro stile nudo ma complesso, anche a costo di sembrare monocorde. Se il precedente “Pre Language” era stato un successo (anche grazie alla collaborazione di Shelley, batterista dei Sonic Youth, che nel 2013 non ha avuto seguito), anche “Era” è un bel lavoro, seducente e ammaliante nella sua goticità. Quindi, calcoli alla mano, i Disappears ci piacciono così ostinati.
http://www.disappears.us
https://www.facebook.com/pages/Disappears/130849953637535
http://www.kranky.net
autore: Simone Pilotti
Disappears – Power from Alexander Stewart on Vimeo.