Jazz + elettronica. Chiaro, ma nient’affatto semplice. L’equazione che potrebbe significare il futuro del jazz (o almeno della sua porzione “free”) è affidata a Matthew Shipp e Guillermo E. Brown. Due “freelance” del jazz che, prima di imabrcarsi in imprese soliste, hanno prestato il loro estro, pur sempre in qualità di parti essenziali più che di semplici ospiti, in formazioni collettive (David S. Ware Quartet, Spring Heel Jack, giusto per citare voci comuni ad ambedue i curricula – per tacere delle Blue Series su label Thirsty Ear in cui Shipp collabora, un disco per volta, con musicisti non-jazz ma altrettanto innovativi come AntiPop Consortium o El-P) altrettanto impegnate negli insidiosi territori di confine tra le “discipline” di cui all’incipit.
Separati anagraficamente da quasi una generazione (tra i 40 e i 50 Shipp, ancora sotto i 30 Brown), i due musicisti hanno in comune la pelle (nera), la nazionalità (yankee), e soprattutto un insopprimibile motivazione a sondare le molteplici direzioni (jazz, elettronica, ma anche rock), anche congiunte, che il verbo free può intraprendere, malgrado – è il caso di Shipp – l’estrazione stilistica di provenienza, ancor oggi saltuariamente esplicata, sia quella classica. E quello di stasera, nell’ambito della sempre varia ed effervescente rassegna che prende il nome da un film di Theo Angelopoulos, è appunto un saggio di questa particolare sfida.
I ruoli sono già definiti dalle rispettive carriere. Se l’occhialuto Shipp è – prevedibilmente – seduto al piano con il composto zelo di un nerd, maggiore incertezza riserva la condotta di Brown, che raramente ama limitarsi alla batteria, strumento su cui musicalmente è nato. E di fatto il treccioluto percussionista si barcamena, per tale progetto, tra uno scarno set di piatti (uno dei quali scassato e timbricamente “sordo”) e varie apparecchiature digitali: una tastiera, un laptop – che, poggiato su una indefinita base, assume misteriose sembianze a metà tra un fax e una stampante – e una sorta di “otre” elettronico – rigido – a tracolla con grossi tasti, che, a seconda della programmazione, può riprodurre qualsiasi suono.
Brani? Neanche l’ombra, ma un’unica, kilometrica suite – poco meno di un’ora, cui seguiranno due più succinti bis –, forse il “formato” più idoneo perché le vorticose evoluzioni dei due musicisti si concretizzino. Potrebbe correre un sipario tra i due, e ai lati di questo essere in corso di svolgimento due concerti distinti e separati. E invece l’approccio classico di Shipp riesce per qualche misterioso motivo a trovare complemento nell’isterica espressività free di Brown.
Nessuno guarda l’altro, ogni gesto asseconda qualcosa che il pubblico non può vedere, come se, al posto di quell’ideale sipario, l’aria fosse pervasa di un qualche etereo traduttore simultaneo che rende i due flussi sonori compatibili, e in qualche modo convergenti, benchè i nostri impieghino poco per abbandonare ogni apparente coerenza e partire ognuno per la propria tangente, fino al punto in cui Shipp accenna la gershwiniana ‘Summertime’, così come Brown – ma i due momenti sono separati – si avventa sul microfono, soffiandoci dentro o dandoci di beatbox. Né i due si scandalizzano più di tanto per l’affluenza del pubblico, esiguo ma evidentemente competente o, almeno, consapevole di ciò che stava per andare in scena. Pubblico che risponde a dovere quando Shipp e Brown chiedono il meritato tributo di applausi. Interessi inclusi, nel riscontrare il commiato “vagamente” politico (“Fuck Bush… and Berlusconi!”) di Brown…
Autore: Bob Villani