Come nella vita dei comuni mortali anche nella musica nascere a determinate latitudini non significa riconoscersi per forza nella tradizione dei luoghi da cui si proviene.
Prendiamo il caso degli Sparks. Il duo composto dai fratelli losangelini Ron e Russell Mael in tanti anni di onorata dedizione al mondo delle sette note ha sempre avuto uno sguardo eccentrico e sofisticato alla composizione, tradendo un malcelato amore verso il vecchio continente, specie l’Inghilterra.
La voglia di costante rinnovamento ha fatto così breccia nel cuore di svariati appassionati ed illustri colleghi, basti citare alcuni esempi, al pari di Depeche Mode, The Smiths, Thurston Moore (Sonic Youth), Kurt Cobain (Nirvana) Joey Ramone, Björk, Justice, Faith No More e Franz Ferdinand (coi quali hanno pure pubblicato un disco insieme col progetto FFS del 2015). L’eterogeneità dei nomi che avete letto sopra è già un buon modo di comprendere quanto possa essere trasversale la proposta dei nostri.
Sebbene i due viaggino oltre i settanta, determinate caratteristiche fanno ancora parte del loro bagaglio e A Steady Drip, Drip, Drip ne dà ampia dimostrazione.
Diciamo che questo ventiquattresimo (wow!) lavoro in studio della band con il suo bagaglio di art-pop, rock, elettronica, divagazioni operistiche, unito all’inconfondibile falsetto di Russell ed ai testi caustici e bizzarri di Ron (altresì da sempre autore delle parti musicali) pare una pregevole summa del percorso sin qui tenuto.
Nel disco si passa senza soluzione di continuità dall’afflato elettroacustico di All That al rock trattenuto di I’m Toast, all’ode in odor di vaundeville di un attrezzo come il taglia erbe (Lawnmower), al sarcasmo classicheggiante di Stravinsky’s Only Hit, passando per l’ironica e quasi bandistica Onomato Pia (che titolo ah! ah!) sino all’invettiva sintetica di iPhone (“Put your fucking iPhone down and listen to me” un verso che dice molto sull’odierna incomunicabilità e, a mio modesto avviso, allargando il discorso, su quanto elevare ad icona una figura del moderno turbocapitalismo sia stato preoccupantemente pericoloso…).
Si chiude in bellezza con Please Don’t Fuck Up My World (toh dopo decenni di rispettato avanzamento professionale, la band si leva lo sfizio di usare una seconda volta l’imprecazione Fuck in una canzone, perdipiù nello stesso album), inno ecologista, impreziosito da un coro di bambini.
Molti appassionati di musica, forse, storceranno il naso ma personalmente ho sempre apprezzato quegli artisti che sanno far della versatilità un pregio. Una dote che abbonda in casa Sparks. Alla loro veneranda età sarebbe facile coltivare il proprio orticello, senza rivolgere lo sguardo altrove.
Non è il caso dei fratelli Mael e, detto fra noi, mi auguro anch’io di arrivare ad simile traguardo dell’esistenza, avendo ancora la voglia di farmi sorprendere da ciò che ci circonda. Amen.
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autore: LucaMauro Assante