A sei anni da “Necroide” i Bachi da Pietra hanno pubblicato il loro settimo disco in studio “Reset”. Bruno Dorella e Giovanni Succi hanno resettato totalmente il progetto sia nel sound, che si è stato aperto all’elettronica, sia nella formazione, in quanto è diventato un trio, con l’ingresso di Marcello Batelli. Di questo e di molto altro (situazione del rock in Italia, rapporto pubblico, capri espiatori, ecc,) ne abbiamo parlato in un lunga e piacevole chiacchierata con il cantante e chitarrista Giovanni Succi.
Partiamo da un ben tornati ai Bachi Da Pietra dopo sei anni. Avete pubblicato da poco un nuovo lavoro, ma nel frattempo sia tu che Bruno avete fatto altre cose. Tu i lavori solisti e Bruno nuovi dischi con OvO e Ronin.
Esattamente. Ci eravamo lasciati dal palco nel tour di ‘Necroide’ nel 2016. Ci eravamo dati appuntamento da lì a un paio d’anni, poi siamo stati molto presi da quello che stava succedendo a latere ai Bachi da Pietra e comunque era arrivato per il gruppo il momento di chiudere un cerchio. Come? La soluzione di aprirci a trio è piaciuta subito a entrambi, perché dopo 15 anni che suoni in due sul palco e registri i dischi con due strumenti ti assicuro che quando ne aggiungi uno, si vola, quindi abbiamo pensato che si era fatta anche una certa età per ognuno di noi per cui era arrivato il momento di “rendiamoci la vita un po’ più semplice”. A quel punto non potevamo far uscire il disco nuovo, intitolato ‘Reset’ e presentare la stessa minestra di prima, non sarebbe stato assolutamente credibile. Inoltre, nel frattempo, la mia scrittura è cambiata, forse anche grazie alle esperienze soliste e a tutto quello che c’è di mezzo, perché intanto uno fa altre esperienze, si continua a vivere. E’ venuto tutto nel modo più naturale possibile. Sarebbe uscito nel 2020 se non ci fosse stata la pandemia, per cui il disco è rimasto lì e nel frattempo hanno iniziato a sentirlo gli addetti ai lavori e la Garrincha si è molto appassionata a questo album e ci ha proposto questa ventata di novità e l’abbiamo presa. ‘Reset’ sembrava una profezia che si auto avvera, perché abbiamo nuova formazione, nuova etichetta, nuovo booking che è Locusta, quindi eccoci qui, si comincia adesso.
Con l’ingresso di Batelli avete cambiato una buona parte del sound che definirei più ‘aperto’ rispetto a quello precedente.
Pensavamo di aver dato il possibile ma anche l’impossibile perché, se pensi a quello che abbiamo suonato con due strumenti, la gente quando ci vedeva dal vivo suonare ‘Quintale’ e ‘Necroide’ rimaneva impressionata che veramente riuscissimo a produrre quel volume e quella pienezza di suono senza basi e senza strumentisti aggiunti. Tuttavia, il limite, anche solo tecnico era che comunque la parte armonica veniva fuori dalla mia chitarra, quindi per quanto tu allarghi le dita e fai dei suoni diversi, quelli sono. Aggiungendo un altro strumento che riesce ad ampliare lo spettro della base armonica è tutto grasso che cola.
Poi vi siete aperti all’elettronica. Batelli suona il pianoforte, il basso, quindi immagino che anche il fatto che sia un polistrumentista abbia contribuito molto al mutamento del vostro sound. È stato scelto perché suona più strumenti?
Noi ragioniamo per persone. Di strumentisti ottimi ce ne sono moltissimi. Marcello l’avevamo conosciuto durante la registrazione di ‘Necroide’ e ci eravamo trovati da subito molto bene dal punto di vista umano. Man mano abbiamo scoperto che sapeva suonare tutto in modo eccelso. Suona qualsiasi cosa e in più unisce una prerogativa che di solito non si trova nel musicista, ma si trova nell’ingegnere, che è quella del fonico. Ha un’attitudine molto precisa che trovi più in un fonico che in un musicista, rispetto agli spippoli e alle cose tecniche. In qualche modo, inspiegabilmente, queste due anime convivono in lui, non so come, quindi è stato veramente straordinario, sia come strumentista, che come uomo di studio. Nella fattispecie noi ci dividiamo tutti gli strumenti, ovviamente non porteremo in tour il pianoforte, che in realtà sono io a suonarlo e non Marcello, quindi lo zappatore sono io. Lui è molto raffinato sia con l’elettronica,che con il basso e la chitarra. Abbiamo scoperto che suona pure la batteria quindi potremmo anche distribuirci gli strumenti diversamente. Ne siamo molto felici. Dal punto di vista umano è stata un’avventura tutta in discesa, perché non c’è stato neanche bisogno di spiegarci per dirci che cosa ci piaceva o non ci piaceva. Lui conosceva già i Bachi da Pietra, aveva ben presente tutto il percorso, ha un suo gusto che si cala benissimo, infatti senti l’elettronica che è perfettamente applicata al nostro sound, non è una cosa appiccicata lì, è come se ci fosse sempre stata.
Si, la sensazione che ho avuto è che sia entrata e che si sia fusa con il vostro sound, aprendolo e alleggerendolo, soprattutto rispetto alle ultime produzioni. Immagino che fosse anche questo il vostro intento.
Si, perché con “Necoride” eravamo arrivati a un punto di non ritorno. Se vai in crescendo dopo “Necroide” che cosa puoi fare? Comunque non è mai stata nostra intenzione diventare un gruppo di genere. Non ci interessa infilarci in un genere e sapere poi che hai tutto il pubblico di quel genere che sicuramente ti segue, perché ti sei dato quell’etichetta. Sono cose che funzionano, perché poi si crea una fan-base molto fedele, però quanto fedele al gruppo e quanto al genere? Noi, nel nostro piccolo, siamo sicuri che chi apprezza i Bachi da Pietra, apprezza il gruppo non un genere in particolare nel quale ci butta dentro i BdP. Non è il nostro caso volenti o nolenti perché queste sono cose che non studi a tavolino, fanno parte della tua natura. Il nostro modo di essere è questo ibrido e neanche noi sappiamo dove collocarci, infatti, il primo pezzo non a caso è “Di che razza siamo noi”, non sappiamo di che razza siamo, dovrebbe dircelo qualcuno. Non ho sviluppato ancora una certezza su questo argomento.
Batelli è entrato anche in fase di composizione?
No, in fase di composizione ci sono io a lacerare i brandelli di quello che passa tra i miei due neuroni residui. Batelli, come Dorella, ha collaborato molto agli arrangiamenti, la scrittura è la mia e gli arrangiamenti sono di tutti.
Questi testi mi sembrano più centrati sul tema dell’esistenzialismo. È così?
Non saprei. Se ti va di catalogarlo così va bene. Mi chiedo cosa non è catalogabile in questo settore allora! Per esempio, nell’album precedente “Slayer and The Family Stone” parla di uno che fa la cosa alla posta, alla fine, mi devi dire tu che cos’è?
Intendevo esistenzialismo che emerge anche in brani come ‘Umano quasi’ e più in generale in molti brani mi sembra che ci sia una maggiore concentrazione sul sé e sulla concezione del mondo e di come questo sta cambiando. Quindi esistenzialismo intenso, senza esagerare, in maniera anche panteistica.
Forse più universale. È come se questi insetti vedessero il mondo dal di fuori e non soltanto dal di dentro. Il disco è pieno di questi movimenti dentro-fuori, se hai voglia di giocare ad analizzarli. Per esempio la visione dallo spazio di ‘Umano o quasi’ che ti presenta la visione della terra come una palla nel vuoto dello spazio e questa palla poi ritorna sotto forma di balla di merda dell’insetto stercorario che tutti i giorni se la spinge in avanti e quindi sei tornato al suolo. A me piace molto giocare con le immagini ed è il mio modo di comporre.
Si, è un modo molto intrigante e affascinante. Con “Meriterete” con chi ce l’avete in particolare?
Non ce l’abbiamo con nessuno. “Meriterete” è uno specchio ed è dedicata all’italiano della porta accanto che tutti noi abbiamo, magari per un altro siamo noi. Dall’italiano della porta accanto senti fare dei discorsi che ciclicamente sono più o meno sempre quelli e a un certo punto l’augurio è che probabilmente vi meriterete di ottenerli prima o poi. Non è una canzone che punta il dito. Non è espressa da una pseudo entità superiore nei confronti di un essere inferiore. È uno specchio, oppure se vuoi, guardandola dal punto di vista della forma, è una specie di trojan una canzone orecchiabile, melodica, paracula, che è fatta per dirti ‘mi piace, ma lo meriti, allora, prima o poi te lo auguro”.
C’è un po’ di sano cinismo in questa visione.
Sai, finché il capro espiatorio è qualcun altro fa comodo a tutti. Poi arriva il momento che il capro espiatorio sei tu, il cerchio si chiude, però l’hai voluto tu che ci fosse il capro da qualche parte. Il capro va a turno. Prima o poi tocca a tutti essere capri di qualcuno.
“Insect reset” a chi è dedicata?
È stata ispirata dall’idea della trasposizione della nostra storia in una specie di esperimento da laboratorio. Tutto questo è stato scritto e pensato prima della pandemia, quindi l’idea di un esperimento in laboratorio che sfugge di mano ed è quello che a me pare che noi siamo. Intendo come gruppo e poi mi metto nei panni di chi, eroicamente, ci segue in tutte queste forme diverse, in tutte queste variazioni, che poi non sono dall’oggi al domani ma graduali e mi rendo conto che chiediamo molto al nostro pubblico perché veniamo da un primo album che si intitola “Tornare nella terra”, catacombale, blues minimale e finiamo con “Black metal il mio folk” suonata a volume sparato. Mi rendo conto che è un bel salto e mi rendo conto che chi ci ascolta potrebbe essere frastornato da questo ulteriore cambio di direzione, ma il punto è che non sono cambi ad minchiam. Il punto è seguire la natura che ci ispira, per cui noi seguiamo la nostra natura anche a discapito di noi stessi, come “Pesce veloce del Baltico” che pensa di essere un grande eroe invece fa la fine del merluzzo. Noi probabilmente faremo la fine del merluzzo perché non siamo in grado di trasformare in un’imbalsamazione la nostra proposta. La nostra proposta è noi e siamo vivi. Questa cosa, mi rendo conto, è difficile da accettare.
Quando dici ‘è difficile per il nostro pubblico’ penso che chi vi segue sia disponibile ad apprezzare la vostra libertà di fare ciò che vi sentite. Chi segue i BdP è pre-disposto a questa varietà di sound che poi rispecchia la vostra libertà e forse proprio per questo vi apprezza oltre al gusto per il sound e per la parole che esprimete.
Lo spero, ma la mia speranza finisce lì, alla fine non mi interessa. Mi rendo conto che la formula del successo è l’opposto, però le cose che semino cresceranno quando sarò morto, quindi non mi posso permettere di lasciar delle cagate in giro.
Si, ma se prendiamo un personaggio come Edda, che ha un cantautorato molto strampalato che non è quello ortodosso con cui siamo cresciuti di Guccini o De Gregori, può aprire una nuova strada un giorno.
Assolutamente ed è un peccato che non la apra, perché anche a me Edda piace tantissimo, lo trovo un fenomeno incredibile e se ci pensi nella storia del cantautorato italiano ci sono stati cantautori completamente fuori dagli schemi quindi in teoria potrebbe avere una sua tradizione. Abbiamo Ciampi, abbiamo avuto Tenco. Edda è la versione contemporaneizzata di quella linea lì probabilmente, ma penso anche al primo Paolo Conte, che esce negli anni ‘70 e che non aveva mai esordito come cantante, ma solo come autore. Quando esce il primo album fa un disco che è completamente fuori da qualsiasi schema, scampanato, stonato, con delle marcette quando andava il beat. Fa delle cose che dici ‘il disco più punk degli anni ‘70 in Italia è quello di Paolo Conte’. Vedi uno che gliene frega un cazzo di niente e di nessuno, però in quel momento c’era un contesto che consentiva a questi fenomeni strani di riscuotere attenzione. A Ciampi hanno fatto fare un programma su Rai1 in prima serata. A Ciampi! A Edda che cosa gli devono dare Domenica In! E così via, ma non è più così. In realtà devi essere pettinato, per quanto spettinato devi essere pettinato, devi avere una spettinatura che deve essere studiata da uno stilista che ti dica che sia la spettinatura giusta e che vai con il tuo abito griffato. Vestitevi Succi e non vestitevi Gucci (risate). Pensa se tu andavi da Jimi Hendrix e gli dicevi ‘questa giacchetta non penso che vada tanto bene, c’è una casa di moda che ha fatto questa giacchetta’. Mi sarebbe piaciuto sentire la risposta di Jimi Hendrix. Dico va bene, liberi tutti, ma una volta c’era spazio anche per quelli spettinati veramente.
Il rock è morto?
Come no? Siamo qui a parlarne! Allora se il rock è morto parto dal semplicissimo presupposto che constata un fatto cioè che io sono vivo. Quindi se il rock è morto io sono vivo e quello che faccio si chiama ancora rock. Ho trovato un interessantissimo documentario su Elvis e gli fanno una domanda quando sta per partire per il servizio militare. Gli dicono “Adesso che devi stare a fare il militare in Germania, se quando torni il rock è morto e non esiste più?” Elvis ci pensa un attimo e poi sorride. Davano per morto il rock nel 1958 perché Elvis stava per andare a fare il servizio militare. Certo poi sono arrivate cose molto diverse come i Beatles, è morto il rock’n’roll? No, si è trasformato. Poi sono arrivate altre cose diverse. È morto? No si è trasformato. Poi è arrivato il punk, è morto? No, si è trasformato di nuovo. Cambia pelle, cambia aspetto, quello che non cambia più a questo punto è l’atteggiamento del pubblico che se avesse visto Jimi Hendrix nel ‘68, e se fosse stato ancorato all’idea di Elvis, avrebbe detto: “Cosa fa questo? La chitarra deve suonare rockabilly, sennò non mi piace”. Ma anche questa cosa la dovevi dire tu a Jimi Hendrix.
Ce l’hai con i conservatori del rock, con chi è più realista del Re?
Non è che ce l’ho ma ho voglia di dire loro ‘guardate ragazzi che con questo atteggiamento tutti i vostri beniamini non sarebbero mai usciti dalla cantina, perché voi state facendo ostruzionismo nei confronti di quelli che suonano oggi. Non posso dimenticare la prima volta che sentii Tom Waits. Allora ero un nazi-metallaro quindi non poteva esistere niente al di fuori dell’heavy metal o del punk-hc, già i Ramones li consideravo musica da bambini perché li ascoltavo quando avevo 10 anni. Un giorno ero a casa di un amico e ho sento Tom Waits e penso “cos’è ‘sta merda? Fa schifo, non si può sentire, è tutto sgangherato, non si capisce che genere fa”, e poi gli ho chiesto di prestarmi quel disco, perché pensavo “non può essere che esiste un disco così brutto” ed era “Swordfishtrombones”. Da lì mi si è aperto il mondo perché non mi sono chiuso a riccio. Certo se oggi l’algoritmo sgama che quella cosa lì tu non la vuoi sentire,non te la fa sentire mai più e sarai nazi-metallaro per tutta al vita. Probabilmente se fosse esistito Spotify quando avevo 17 anni starei ancora ascoltando le stesse cose.
Negli ultimi anni fino all’esplosione del revival post-punk con gruppi come Metz, Idles, Shame, Girl Band, Viagra Boys, ecc. nel rock non c’era stato qualcosa di veramente innovativo. Comunque quello che vedevo è che nel rock si stenta a trovare nuove sonorità.
Si, perché è anche una questione di strumenti, nel senso che le sonorità le danno gli strumenti che usi. L’elettronica ha una gamma di timbriche e di sonorità che non ha paragoni. Non ha limiti è virtualmente infinita, proprio come uno strumento informatico. Il fatto di aver aperto i BdP all’elettronica non è stato un colpo di genio, ma in che direzione ti puoi muovere diversamente? In che direzione vuoi andare? Aggiungi uno strumento in più, aggiungi delle sonorità in più, che faranno sempre parte del tuo suono, quindi tutto quello che puoi prendere dall’elettronica escluderai quello che non ci piace, come i suoni patinati che non ci piacciono, ma di sonorità che ci piacciono sai quante ce ne sono? A tonnellate. Da lì si può prendere e ispirarsi a piene mani, come hanno sempre fatto tutti per qualsiasi cosa. Molto interessanti dal punto di vista delle sonorità sono quei gruppi che riescono a creare degli strani ibridi che, siccome sono nati in Inghilterra, hanno grande successo Se fossero nati in Italia non se li sarebbe filati nessuno perché noi abbiamo degli strani ibridi, e mi riferisco agli Uoki Tochi, ma non mi risulta che siano di successo. Se fossero nati in Inghilterra e Napo fosse un cantante inglese, probabilmente sarebbero come gli Sleaford Mods. In Italia non ci si aspetta che un artista esca fuori dagli schemi e affermi fortemente qualcosa di nuovo. È una cosa che tutti invocano, ma in realtà quando la trovi storci il naso e preferisci che la trovino prima gli altri. Ti ricordi gli Starfuckers? Loro hanno fatto alzare dalla sedia i Sonic Youth, ma non mi risulta che in Italia abbiamo lo stesso seguito dei Sonic Youth, assolutamente. Ce li ricorderemo io, te e qualche altro 50enne. Quando nascono delle cose spiazzanti, se sono italiane, pagano il prezzo di essere italiane.
È vero quello che dici, però, perché non si è più verificato un fenomeno come quello degli anni ‘90, quando dopo il successo dei Litfiba, esplosero un sacco di altri gruppi dai CSI, ai Marlene Kuntz, ai 99 Posse e Alma Megretta che ebbero successo e andarono in classifica? Dipende dalle case discografiche, dalla stampa, dal pubblico, chi è il principale responsabile per cui non si verifica un fenomeno del genere oggi?
Come per tutte le cose è un insieme di con-cause. Ti faccio notare che è appena morto Franco Battiato, e i primi dischi di Battiato prima de “L’era del cinghiale bianco”, sembrano essere da fuori di testa, da sperimentatore e da uomo di avanguardia; glieli pubblicava una major e non se li è pagati lui. Significa quindi che negli anni ‘70 un artista italiano con delle idee avveniristiche riusciva a trovare dentro un ufficio di una casa discografica qualcuno che lo finanziava. Questo non succede più. Un’altra concausa è il pubblico, nel senso che se il pubblico non va ai concerti i proprietari dei locali non organizzano il concerto, quindi se la gente non va ai concerti finisce la musica dal vivo, quindi i gruppi che fanno della musica dal vivo il proprio essere al mondo si trovano a suonare davanti a uno specchio. Quindi è il pubblico, che giustamente è libero di scegliere, sceglie quello che più gli piace e se dopo una certa età preferisce stare sul divano a guardare Netflix va così.
Il pubblico dei primi anni ‘90 si entusiasmava del fatto di essere in tanti a un concerto, perché lo vedevano nei video dei Nirvana, e pensavano che fosse una cosa bella da fare, ora non la sentono più quella sensazione positiva. Quelli lì adesso hanno 50 anni e se ne stanno a casa e i ragazzini seguono la nuova forma di rock’n’roll che è la trap, quindi non gliene frega niente di chitarre e amplificatori. Probabilmente tra i ragazzini il rock’n’roll per come lo abbiamo conosciuto noi non esiste più. Magari rinasce, se arriva dagli Usa o dalla Gran Bretagna un grande gruppo che gli fa vedere che quella è una cosa figa, perché se ci provano gli italiani non ci crederanno mai. Per questo sono contento che facciano grande successo gruppi come gli Sleaford Mods, che sono una proposta fuori schema, con basi che arrivano dalla new wave, ma campionate come se fossero elettronica con uno che ci canta come se fosse rap, ma non è rap. Fanno grande successo, io gliene auguro il triplo e che anche un concerto loro ci siano 40mila persone che dicano ‘non si capisce niente, ma mi piace’. Mi auguro che questo dia al via alla voglia di andare a vedere qualcosa di non codificato, omologato. Se il pubblico pensa che sia sufficiente mettere un cuoricino decreta la morte delle cose che gli piacciono, perché del mi piace non se ne fa niente nessuno, perché quando quel progetto arriva nella tua città devi dimostrare che ti piace alzandoti dal divano e andando in quel locale.
“Ciao pubblico” è un omaggio al rapporto con il pubblico, caratterizzato dal solo rock’n’roll?
No, è un saluto schietto che mette le cose in chiaro. Fuori dai denti e dice ‘pane al pane, vino al vino’. Noi non abbiamo il possesso del pubblico che è giusto che sia libero e che faccia quello che gli pare. Deciderà lui se noi siamo per i suoi gusti appetibili o no. Mi rendo conto che sulla carta siamo piuttosto inappetibili. C’è di meglio ma come dice quello nel testo “guarda il dinosauro, era un grande, si è perso” e noi ne abbiamo seppellita un bel po’ di gente, musicalmente parlando. Gente che era sulla cresta dell’onda c’è stata un anno e poi è sparita. Probabilmente il fatto che non abbiamo avuto mai successo è il motivo per cui siamo ancora qua a macinare delle pietre e ad essere credibili, quindi sono le cose che mi piacerebbe dire al pubblico quando me lo vedo davanti nei concerti. Come dico in quel testo mi piace vedere quell’effetto di spaesamento che facciamo, non lo so perché ma è così. Me lo confermano in tanti, facciamo tra il ribrezzo e l’attrazione, paura, diffidenza, ma ci pensi? È proprio quello che fanno gli insetti, perché nessuno si affezionerà mai a una cimice o una formica.
Però suscitano curiosità.
Si, è una forma morbosa quasi.
La qualità si vede nel tempo anche perché successo non è sempre sinonimo di qualità.
Un tempo si diceva ‘muovono il mercato’, il che va bene, perché le case discografiche si trovavano un bel gruzzoletto e dicevano ‘ma si, questo centesimo lo metto su questa pedina che secondo me non vale niente ma questo centesimo ce lo metto’. Adesso non succede più, anzi adesso esistono etichette discografiche che hanno artisti virtuali, gli artisti non esistono, loro si inventano un nome, trovano un modellino gli fanno una foto e gli algoritmi e i computer compongono musiche, in quanto sono in grado di elaborare completamente la produzione di anni di un determinato genere e di produrti ogni volta un nuovo brano di quel genere uguale a tutti gli altri che hanno avuto successo. Finché il gioco funziona come fai a dargli torto? C’hanno anche l’artista virtuale che non beve, non mangia, non vuole soldi, non si spendono i soldi per incidere il disco, chiamali scemi.
Ma tu che sudi sul palco, ti danni per trovare il sound e le parole giusti, come ti vivi questa situazione?
Me la vivo con la massima serenità e con grande felicità, perché penso che c’è gente che in un Paese come l’Italia crea dei vini eroici, eppure il vino più venduto in assoluto è il Tavernello.
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autore: Vittorio Lannutti