Il traffico di band è da ingorgo, forse lo sapete già. I nomi circolano in un incessante viavai, e ciò anche lì dove – Italia – c’è di che dolersi per carenza di talenti e produzioni valide. E come in ogni traffico degno di tal nome è mero optional che ciò che passa lasci un segno. Però accade, magari quando, di quella che credevamo una meteora, fa la sua comparsa un secondo disco, e poi un terzo, e poi chissà quanti altri. E allora quel nome viene disseppellito dai meandri della mente, “e cacchio, erano quelli di quel disco – avrei dovuto ricordarmeli”.
“Avrei potuto ricordarmeli”, sarebbe più esatto dire. Se si fossero degnati di lasciare all’ascolto un disco memorabile. E la memoria non dovrebbe giocare brutti scherzi per i prossimi dischi – auguriamo loro di farne – dei Chomski, sorta di italianizzazione (ma anche “pluralizzazione”) del nome di un noto intellettuale controcorrente in quel degli States. Che con questa band torinese, o almeno con le parole che stiamo per spendere su di essa, ha poco a che fare.
Torinesi, dicevamo, e in tre, dei quali il più noto sembra essere quell’Enrico Manera della “omonima” Banda. Ma c’è una buona fetta del rock-sotto-la-Mole a gravitare su un album che, ove non si fosse capita l’antifona, ha le carte in regola per affermarsi tra gli ascolti italiani di questi tempi – sempre che non preferiate l’n-mo album di qualche mammasantissima imbolsito ma pur sempre fornito di un pubblico con cui condividere ascolto e discussioni.
Potrebbero piacere, i Chomski, a chi aspetta da tempo qualcuno, nella penisola, capace di mettere all’esterno ciò che si nasconde dentro, molto dentro, e farlo volare sulle ali di melodie malinconiche, magari ricche di archi, in cui però l’intensità e la veracità precluda ogni degenerazione al melò (‘Sei Ancora Lì’) – qualcosa alla Tindersticks, forse i Dirty Three più pacati. Ma potrebbero piacere anche – sempre nell’ottica di non doversi rivolgere oltreconfine – a chi cercava un post-rock aperto ad inflessioni cantautorali e – nuovamente – introspettive, anziché intento a scervellarsi su formule che sintetizzino per le proprie geometrie (‘Affondare’); e, paradossalmente, anche a chi cercava proprio quest’ultima ipotesi, specie se affermata con vigore, tipo Shipping News degli ultimi tempi, con chitarre che arrivano a stridere furiose, però con una voce “cantata”, con moderazione, e quella viola che non vuol sparire neanche quando sarebbe il momento, salvo accorgerti che non è, ancora, il momento (‘Com’è’).
Episodi indovinati? Detta così suonerebbe come un casuale incastro di buone combinazioni. Invece si capisce bene che questo, così come descritto, è il registro, la cifra del sound dei Chomski. Si sente la maturità, si sente il collaudo di esperienze passate. Ci sono altri 4 episodi in questo disco, e nessuno, neanche per un attimo, sembra in grado di smentire questo – alto – tenore compositivo. Che può piacere non solo a “chi è in cerca di”, ma a tutti, purche interessati – seriamente – ai contenuti di un disco. Non a chi vuole solo un nome di altrui facile adesione da spendere sulle proprie labbra. Dopo l’altro debut omonimo di Songs For Ulan – e i “servigi” di “un certo” Paolo Benvegnù – un altro bel colpo, ma bello davvero, per Stoutmusic.
Autore: Roberto Villani