Prima di ascoltare i Milk White, preparatevi a spazzare via la polvere dell’indie carino e saltellante e nasconderla sotto il tappeto. Mettete su Prague, il primo lavoro della band romana prodotto in collaborazione con MyGeisha Records, ma siate consapevoli che nessun riff tenero di chitarrina verrà a dirvi che va tutto bene. Anzi. I Milk White sono cattivi, a tratti freddi come un cecchino, caldi, semmai, solo come il fuoco della rabbia che sale prima di una rivoluzione. Con la prima traccia, A hommage to (Niki), ci si imbatte nella prima particolarità del gruppo, la voce femminile di Erika Giuili, sostenuta dal basso di Malosangue, che ricama le note sul basso come un tessuto pregiato. Se Bob Dylan fosse stato donna probabilmente avrebbe cantato così. Dopo un attacco senza mezze misure, si passa a One Night Stand; il ritmo serrato di basso e chitarra che si intrecciano in una melodia accattivante, accompagnando l’avanzare sensuale e pericoloso della linea vocale (scuola Kills), fino a coinvolgere la batteria ticchettante in un gioco di ritmo perverso che non uscirà più dalla testa. L’esplosione dell’Ep si ha su Prague (is not that far): le atmosfere gelide e spoglie evocate dal titolo vengono riprese all’inizio della canzone, gli strumenti si trascinano apparentemente confusi, riportando tacitamente un omaggio (ben costruito, affatto scontato) ai Velvet Underground più sporchi e cattivi. Su Western Ballad la chitarra di Stefania Imperatori si fa più grunge, un tocco dark-underground che scuote nel profondo, e non si immaginerebbe mai una ragazza a sostenere certi ritmi. Cold è la penultima canzone: una ballata dai toni cupi tutt’altro che romantica o malinconica. I Milk White insegnano che se qualcosa va storto, devi imparare a rialzarti da solo.
Chicca del disco è l’ultima traccia: una seconda versione di Prague (is not that far) mixed by Paolo Mauri. Avete presente gli Afterhours e Verdena? Ecco.
Autore: Olga Campofreda