The Darjeeling Limited. Il titolo del nuovo film di Wes Anderson non fa altro che rilevare un semplice dato di fatto, il nome di un mezzo di trasporto che permette agli uomini di trasferire se stessi, le proprie storie, da un tempo ad un altro, da una nazione ad un’altra.
Il treno è uno dei soggetti privilegiati dal cinema che di binari ne ha filmati parecchi, a partire dal 1895 in poi. Anche il cinema è il mezzo, una forchetta rosselliniana che porta dal piatto alla bocca, reca l’immagine allo spettatore come farebbe ogni buon gregario meccanico. E non è casuale che venga scelto esattamente questo simbolo, “il mezzo”, come luogo d’elezione in cui far accadere gli avvenimenti. Anderson è il regista del mezzo, dell’espediente narrativo sublimato e così esemplificato da diventare non solo l’elemento causale dell’azione ma anche e quasi l’elemento stesso. Allo stesso modo delle peripezie acquatiche del film precedente che vertevano sul movimento dei personaggi così come sul ritmo del vedere, frammentato e zoomato; un vedere che sembrava la probabile esecuzione cinematografica di un romanzo bizantino.
La messa in scena di Anderson è la realizzazione tecnica, priva di virtuosismi, di quella idea che già viene progettata in sceneggiatura come una costellazione di eventi. Tutta l’immagine è una superficie istoriata come la faccia di Murray, traghettatore muto del film precedente nel successivo (come ha notato Aldo Spinello su Sentieri Selvaggi), impegnato in una corsa che difficilmente si può interpretare dissimile da un adempimento drammatico. Anderson sembra probabilmente suggerire che le storie raccontate sono effettivamente episodi di corridori impegnati in una folle tensione verso il macguffin di turno – macguffin impregnati molto spesso di una letterarietà disarmante pronta a stridere con l’originalità della messa in scena: un mobydickiano squalo giaguaro prima, la madre sparita nelle nullità del deserto ora. Viene da pensare che la fasciatura di Owen Wilson sia soprattutto il perno utilizzato per fare dell’episodio del funerale un “flashback” che altrimenti, gettato com’è alla velocità della luce nel corso organico della storia, mostrerebbe la sembianza dei personaggi identica al presente della narrazione.
Così come la sfacciataggine delle valigie iper-firmate stragriffate Vuitton, espediente puro per potenziare un budget e recuperare i colpi della sconfitta di Steve Zissou al botteghino (le entrate furono di venti milioni più basse della cifra impegnata). E da ultimo lo sfruttamento esplicito della tematicità, dei sentimenti e dei rapporti umani trasmigrati in un incrocio ghiacciato tra persone-macchine desideranti. L’eredità di un padre la cui rievocazione viene fatta a mezzo di una cintura, di un paio d’occhiali e di una porsche. Non è azzardato dire che Il treno per Darjeeling è lo scheletro di una costruzione cinematografica pretestuosa, anche una scusa per accoppiare ai ralenti le sequenze musicali più disparate (le preferite del regista?).
La musica – il sentire non è esente dall’idea che è alla base del vedere – azionata più volte da uno dei mezzi più usati al momento, un’ipod simbolo di consumo portatile ed istantaneo. Cinema for Cinema’s sake.
Autore: Roberto Urbani