Sono la band del momento. E lo resteranno per molto tempo. E dal vivo sono spettacolari: sono i Drink To Me.
Ma basta chiacchiere: facciamo parlare loro.
Iniziamo con una domanda banale, giusto per sputtanarci in partenza: che significa “S”?
Francesco: “S” sta per “sintesi”, ovviamente (pausa). (ride) A parte gli scherzi: “S” è un’iniziale che racchiude in sé svariate parole chiave che puoi ritrovare nei temi che trattano le canzoni. Ci sono molti Segreti/Secrets. Se lo ascolti bene, se leggi le parole, S è anche una divinità.
Marco: “S” è uno stimolo per chi cerca qualcosa nel disco.
Con “Brazil” siete passati dalle sonorità chitarristiche di “Don’t Panic, Go Organic!” a un sound elettronico, sebbene suonato. Con “S” riproponete questa formula massimizzandola, includendo anche suoni campionati. Sembrate, in pratica, due band differenti, anche a livello compositivo: raccontaci di questo passaggio.
Francesco: Il segreto è ascoltare tanta musica diversa: ti fa venir voglia di sperimentare nuovi suoni. Il primo album è nato quando eravamo un gruppo con 2 chitarristi. Poi il chitarrista principale ha deciso di mollare e le chitarre sono un po’ passate in secondo piano. Da allora è cambiato radicalmente l’approccio compositivo. Prima si partiva da un giro di chitarra, ora si passano ore a improvvisare su parti musicali molto minimali e poi si fa un lavoro di scelta.
Marco: Tra il primo album e il dopo in effetti è successo che Pierre, l’ex-chitarrista, non c’era più. Ed essendo lui a scrivere le parti da cui nascevano le canzoni (parti con cui arrivava in sala prove e che noi “arricchivamo”), capisci che la sua dipartita ha lasciato un vuoto che abbiamo riempito con una valanga di improvvisazioni.
Giuseppe: Non per sminuire il vostro primo lavoro, ma decisamente in meglio.
Marco: In meglio anche perché siamo maturati molto. Il primo disco fu scritto con circa 30 concerti alle spalle. “Brazil” con una 70ina. “S” con quasi 160.
Per quanto riguarda questo vostro approccio compositivo dello scrivere suonando tutti insieme, come fate a creare brani così complessi come i vostri senza che vi sia un momento di introspezione da parte di chi compone?
Francesco: Ma c’è anche quello.
Marco: In realtà quel momento c’è! Toccati il naso e fai “cheese”. Funziona così: improvvisiamo, se succede qualcosa di interessante attacchiamo a registrare, poi vado a casa e se riesco edito i 30-60 minuti di improvvisazione tagliando le parti in cui non si aggiunge nulla di nuovo, creo MP3, li invio agli altri. Personalmente li riascolto decine di volte e aspetto di capire cosa mi entusiasma. Poi, dopo qualche settimana o mese, riprendiamo in mano il pezzo e proviamo a risuonarlo, proviamo a dargli una struttura.
Francesco: Diciamo che Marco ha l’approccio più “compositivo/costruttivo”, io quello più “distruttivo (nel senso che mi piacciono meno cose, tendo a scartare), Carlo… beh… che approccio ha lui? Alcolista?
Marco: Si, alcolista. Carlo e Francesco tirano fuori le cose più strambe che alla fine mi entusiasmano proprio perché danno un tocco più originale. Io ho l’anima più pop e da “regista”. Abbozzata una struttura poi registriamo dei provini a tracce separate, a click, in modo da poter editare, duplicare, tagliare, ecc, fino a raggiungere il risultato migliore. Se tu potessi ascoltare la prima volta in cui abbiamo improvvisato, ad esempio, “Henry Miller”, percepiresti una distanza siderale, un caos totale in cui si intravede la canzone.
Sarebbe fico poterla ascoltare, tipo come si fa con i bootleg in studio di band come Beatles o Pink Floyd.
Francesco: Faremo poi la ristampa “deluxe” tra 25anni con un CD in più.
Marco: Sarebbe una schifezza! (ride)
Considerando che io sono un maniaco rispetto a tutto ciò che avviene in studio, ho letto che avete usato campioni di voci dei Jefferson Airplane o un sitar, fra le varie cose: volevo chiedervi di parlarci un po’ di quali altri diavolerie tecniche ci sono in “S”.
Marco: Questa volevo raccontarla: ho lavorato per mesi in una portineria con il portatile a disposizione, durante ore ed ore di NULLA molti campioni sono nati lì. In solitudine, vestito con giacca e cravatta, lavoravo un po’ a caso a suoni nuovi, a loop interessanti. Non avevo ancora idea, ovviamente se li avessimo mai usati. Eppure molti sono diventati importanti! Il campione di “Henry Miller” è preso da un frammento di una canzone, filtrato, effettato con un delay e altre cose che non ricordo. Idem per “Future Days”. Ancora non avevo idea dell’uso che ne avremmo fatto.
Questi campioni di cui parlavi sono di canzoni vostre o altrui?
Marco: Altrui. Francesco, posso rivelare o no?
Francesco: Non lo so. Chiedo al mio avvocato. Dipende, poi noi neghiamo tutto.
Marco: Quello sicuramente dice che finiamo nei casini.
Francesco: Ok, allora fai così: aggiungi delle lettere ai nomi per renderli irriconoscibili, tipo Rupert Wyattt.
Marco: O Lucio Bassisti (ridono). O Tys Tys, Fennezio.
Francesco: Tys Tys non la so nemmeno io.
Battisti dove sta?
Marco: Le vocine di “Elevator” che usa Carlo! Frammenti di voce. Nel loop di “Future Days”, quella specie di drone, c’è anche un frammento di cori femminili di “Il Mio Canto Libero”.
Insomma, c’è parecchia roba nascosta nell’album.
Marco: Si. È entusiasmante il concetto di “campione”, mi piace l’idea di estrapolare un frammento di canzone, che è un frammento di cultura, decontestualizzarlo. Ha due effetti che mi piacciono: quello di portare un mondo diverso dentro alla canzone e quello di rendere il sound molto più sfaccettato, ricco, tridimensionale. “Donuts” di J Dilla è un capolavoro, è fatto SOLO di campioni.
Infatti uno dei plausi principali da fare al vostro lavoro in studio è proprio la capacità di creare dei muri sonori belli possenti ma che al contempo non disturbano l’ascolto.
Marco: Si, muri sonori potenti ma non fastidiosi. Secondo me il segreto è nell’armonia. Non ci sono praticamente dissonanze a partire da “Brazil”.
Francesco: E comunque rispetto a “Brazil” i muri sono molto meno aggressivi. Invece di arrivarti in faccia ti circondano da molti lati!
Sicuramente l’offerta in “Brazil” era più ostica. Questo mi porta a un’altra domanda: rispetto a “Brazil”, che ha un attacco molto ostico con “Small Town”, con “S” partite alla grande con uno dei brani più belli e al contempo coinvolgenti dell’album: “Henry Miller”. Avete capito come si fa una scaletta?
Francesco: (ride) Pensa che abbiamo sempre cercato di iniziare i dischi con pezzi (in modi diversi) ostici.
Marco: “Henry Miller” è finita lì solo perché dura troppo!!! (ride)
La cosa fica di “Henry Miller” è che c’è un’evoluzione nelle linee melodiche e ne usate varie man mano che il pezzo avanza.
Francesco: E qui complimenti a Marco, è una cosa che apprezzo moltissimo di quel pezzo.
Marco: Eh, già! Roberto, la new entry dei Drink To Me, era entusiasta di un pezzo in cui il ritornello entra dopo oltre 3 minuti! Per farla funzionare ci è voluto un po’.
Allora dovete consigliargli di suonare progressive.
Marco: Lui arriva dal prog-metal in effetti. (ride)
Francesco: Ci sta introducendo al fantastico mondo della doppia cassa.
Marco: Io me ne vado dal gruppo a quel punto. (ride)
Quindi non apprezzi un batterista come Keith Moon?
Francesco: Io? Non lo conosco bene, l’ho visto solo una volta a cena dai parenti e mi sembrava ok. Ok, mostri sacri. Ma no, preferisco un approccio più “minimo/minimale”.
Siete una band che sperimenta, nonostante alla base abbiate un forte impianto pop. Poche band sono riuscite ad attuare una cosa del genere. Potremmo citare i Beatles, i Radiohead, gli …A Toys Orchestra per arrivare all’Italia odierna: quanto tempo dedicate alla composizione e soprattutto alla realizzazione di un brano, considerando che immagino ci sia un grande lavoro soprattutto dietro la scelta dei suoni?
Marco: Parentesi: gli …A Toys Orchestra secondo me appartengono a un’altra famiglia. Non avverto alcuna ricerca nel suono da parte loro. Radiohead e Beatles invece si. E non perché sono mostri sacri. Solo per l’approccio.
Francesco: E il già citato Battisti aveva un approccio simile: mescolava, sporcava, cambiava pelle… ma era super pop. Io sono sempre in fissa con Battisti.
Marco: Battisti sperimentava 10 volte di più dei Toys. Il nostro lavoro a volte richiede qualche mese (“Henry Miller”), a volte poche prove (“Picture of the Sun”) ma questo per quanto riguarda l’arrangiamento! Per quanto riguarda la ricerca suo suono quello è il nostro punto di partenza! Le improvvisazioni sono solo suono, niente struttura. Diciamo che partiamo dal magma sonoro, poi inizia ad emergere un ritmo e una melodia. Il suono è la nostra guida, all’inizio.
E al suono ci lavorate sempre in fase d’improvvisazione, quindi insieme, o vi capita di provare magari a casa da soli?
Marco: Nel caso dei campionatori, o di certi suoni di synth, ci lavoriamo a casa, ma quello poi è il punto di partenza per suonare insieme. Per farti capire: non arriva nessuno in sala prove dicendo “ho questo giro”, ma piuttosto “senti questo suono”, e da li si parte, un po’ a caso. C’è molta intesa fra noi, forte amicizia, tanto tempo passato insieme… questo aiuta. Ovvio, c’è una post-produzione che conta. Ma si tratta solo più di dettagli.
Infatti immagino che la forza del vostro lavoro sia anche poi nella produzione e nel mixing, che riescono a tirare fuori quello che c’è da tirare fuori.
Marco: Si. Non possiamo più lavorare con un fonico “standard”.
Spesso la storia della musica italiana ha visto band più che valide passare inosservate o comunque senza avere il giusto riscontro sotto l’occhio della stampa (e quindi del pubblico, che troppo spesso si fa influenzare dai media piuttosto che farsi una propria idea): penso ai 24 Grana, probabilmente quanto di meglio abbiamo mai avuto in Italia, gli Estra, il Grignani di “Campi Di Pocorn” oppure i Timoria e i Bluvertigo. Voi siete la band più interessante attualmente in circolazione in Italia. Siete di molto al di sopra di tante band ultra osannate, eppure non avete i riscontri che meritate.
Francesco: Noi stiamo facendo un percorso molto lento e lungo. È vero che la visibilità “grande” non c’è. Ci togliamo ogni volta qualche soddisfazione in più. Eh, poi, oh, volete non citare il fatidico fattaccio nr 1 dei discorsi musicali in Italì???? C’è un sentimento di “potremmo avere di più, lo meritiamo”, ma poi prevale sempre il nostro auto understatement (ride).
Marco: Siamo realisti e pessimisti. E testardi. Io a scrivere i testi in italiano solo per renderci più conosciuti proprio non ci riesco. Deve nascermi da dentro. Ecco, l’ho detto.
Francesco: Ecco!!! “Il fattaccio nr1” a cui accennavo (ridono).
Però ormai il fatto del testo in italiano non fa nemmeno tanto testo (se mi concedete il gioco di parole). E vi ricito gli …A Toys Orchestra, che comunque hanno un “successo” notevole e la stampa li osanna.
Marco: Ecco. Mi hai appena citato un rebus.
Giuseppe: Risolvilo.
Marco: Un mio caro amico (durante un loro concerto) mi ha detto: “Agli italiani piace la musica brutta”. Io non so che pensare. Capisco mille volte di più gli Aucan, i Verdena, A Classic Education. Ma anche Pan Del Diavolo. Sparo così, eh. Il singolo dell’ultimo disco mi piace, ma visti live di questo tour mi sono sembrati davvero tamarri. Io li ho visti live per la prima volta quest’anno, e ti assicuro che non ero prevenuto, anzi!! Mi aspettavo grandi cose.
Come vi spiegate che nonostante le recensioni positive poi non abbiate gli spazi principali sui magazine?
Francesco: B O H. Io porto un po’ sfiga.
Marco: Sono cose che non sappiamo assolutamente spiegarci. Sicuro fino ad ora la musica non era molto “popolare”. Il pubblico “alternativo” italiano è difficile da intercettare.
Manco l’ultimo album de Il Teatro Degli Orrori è “popolare”…
Marco: (ride) Quello si che fa cacare. Ma loro erano ODM e spaccavano il culo. Poi “Dell’impero delle tenebre” era ancora figo e l’italiano ha aperto la via poi lo scorso disco così così, ma effettivamente più “pop”, ma qui si tocca un altro argomento. Considera Offlaga Disco Pax+Le Luci della Centrale Elettrica+Teatro degli Orrori+Zen Circus: la moderna canzone di protesta in italiano.
Eh, protesta, mò…
Francesco: (Di “lamentela”, allora).
Marco: E sono stati i più grossi fenomeni underground recenti. Il pubblico alternativo italiano è comunista o simile e vuole sentirsi dire quanto fa schifo la società. Noi non ce la facciamo proprio. Questo è il primo scoglio.
Dici che quindi è “colpa” del pubblico? Io sono sempre più propenso a credere che gli impulsi alle masse vengano da “sopra”.
Marco: Secondo me funziona meglio l’idea di circolarità, di reciprocità. Non arriva tutto da “sopra”: anche “sopra” si adeguano alle richieste di “sotto”.
Siete invece molto apprezzati all’estero: parlaci un po’ delle differenze fra ciò che accade in Italia e ciò che accade all’estero.
Francesco: Ciò che accade in Norvegia è semplice: la musica è un’attività culturale a tutti i livelli, come tale è rispettata e finanziata dalla Stato. I locali hanno impianti belli, gente preparata che lavora, band pagate… un mondo a parte, insomma. Da noi ci sono grandi sacche di “passione” e di sbattimento! Ma niente appoggi istituzionali (anzi, pensate al caso dell’Here I Stay Festival, sabotato dalla politica).
Marco: Semplice: per lo Stato italiano il rock non è cultura. La cultura giovanile è puro intrattenimento.
Francesco: Il rock alternativo non è nemmeno soldi, peraltro. Non è nemmeno considerata un’opportunità per fare soldi, quindi declassata automaticamente.
Giuseppe: E cosa mi dite dei tagli anche al teatro?
Marco: Beh, quello è parte del generale tracollo finanziario. I rubinetti vengono chiusi un po’ ovunque.
Nell’edilizia non vengono chiusi, però. A saltare sono cultura, sanità…
Marco: … istruzione… si potrebbe andare avanti. Sappiamo tutti che la politica è il burattino del potere economico. I grandi interessi muovono la politica. A volte capisco le nostalgie dei fascisti. Per lo meno con Mussolini i fascisti avevano la sensazione di un potere politico che teneva testa all’economia.
Almeno si parlava di statalizzazione…
Marco: Esatto! Probabilmente non era del tutto vero, tant’è che siamo precipitati nella guerra come tutti, ma un potere che stringa le palle a banche, compagnie assicurative, compagnie energetiche e difenda gli interessi del 90% della popolazione sarebbe per lo meno rispettabile. Poi, va be’, la soluzione sarebbe la rivoluzione globale, ma qui ci spingiamo troppo oltre col discorso.
Vogliamo parlare di come un film come “Brazil”, di Terry Gilliam, o uno scrittore come Henry Miller può influenzare una band?
Marco: Vai, Fra. Rispondi tu, che ho la bocca secca a furia di parlare (siamo in chat, ndr).
Francesco: Sono tasselli importanti nel grande mosaico delle influenze.
Marco: Vai, Fra. Mi sto esaltando.
Francesco: “Brazil” è stato importante perché lo abbiamo rivisto dopo aver pensato di chiamare il disco così, ed è stato un po’ la chiave di volta, per certi significati che ancora ci sfuggivano e volevamo dare a pezzi del disco.
Marco: Si, una realtà surreale, delirante. Un po’ pessimista ma anche visionaria.
Francesco: La monotona e folle ripetitività di gesti / l’ironia assurda / la catastrofe / la rivincita magica e altro.
Marco: Vai. Godo.
Francesco: Henry Miller… non lo conosco bene, Marco ha avuto un periodo di infatuazione credo, e comunque rappresenta la vitalità, lo slancio vitale, in qualche modo… no?
Marco: Si. Credo che questo sia penetrato anche nel mood del disco in qualche modo. Nei testi di sicuro. C’è un fondo di calore, di slancio, di entusiasmo, di sfida. Disilluso amore per la vita. Una prosa mistica. Sacro e profano che si abbracciano e danzano. Mi piace pensare che si possa trovare il senso della vita in un dettaglio insignificante.
“The meaning of life”, tornanto a Terry Gilliam e i Monty Python.
Marco: Il film preferito del padre di Carlo, il bassista. Un capolavoro. Il padre di Carlo è uno dei massimi esperti mondiali di meridiane. Gnomonica. Questo è il suo sito: http://digilander.libero.it/orologi.solari/
Francesco: È un genio. Lo salutiamo: ciao Gian, grazie dell’ospitalità.
Comunque io c’avrei tipo altre 10 domande.
Francesco: Se vogliamo vincere il guinness per l’intervista più lunga… noi ci siamo.
“Quando lo scandalo o l’orrido o il linguaggio dell’avanguardia vengono assorbiti nella grammatica del dominio e forniscono a questo nuove possibilità di riscattarsi, elasticizzarsi, riproporsi meglio di prima, resta poco da fare”: con questo immagino intendi dire che chi detiene il potere ha saputo, nel corso del tempo, sfruttare i messaggi provenienti dalle masse, a mio avviso anche e soprattutto quando quei messaggi erano attacchi ad esso. Il potere ha in pratica veicolato l’informazione, anche quando pericolosa per esso stesso, sfruttandola a proprio uso (ed abuso). Com’è possibile che così poca gente se ne avveda, anche fra coloro che si reputano attivisti, che con i loro modi di porsi,per quanto giusti, non fanno che il gioco della controparte lanciando messaggi facilmente strumentalizzabili?
Francesco: La domanda c’era davvero!
Marco: (ride) L’ho detta io quella stronzata????? Stavo citando Adorno. E un po’ lo penso. Lo direi a Capovilla, se fosse qui con noi ora. Il fatto, Giuseppe, è che non si tratta di qualcosa di “volontario” da parte del potere. È un meccanismo perverso. Pensa al punk, pensa al destino ridicolo che ha avuto: da forza culturale sovversiva a semplice moda. Adorno parlava di Joan Baez che cantava canzoni contro la guerra in Vietnam. Il punto è: non credo che la musica possa avere una qualche funzione “rivoluzionaria”, perché è troppo facile per l’industria culturale neutralizzare ciò che nasce come sovversivo.
Comunque abbiamo degenerato…
Francesco: (Meno di 3 ore di chat da “sbobinare”… 😉 )
E vi ho fatto circa la metà delle domande (ed ho tagliato molto, ndr).
Marco: Francesco: (Però noi abbiamo dato più del doppio delle risposte) (ridono)
Questa comunque andrebbe pubblicata così com’è.
Francesco: (La pubblichiamo integrale nel cofanetto deluxe tra 25 anni).
Marco: Dai, facci la domanda finale a cui tieni più di tutte. Francesco… te reggi ancora?
Francesco: Si… mi stavo scaccolando.
Come la volete: cultura, musica o culinaria?
Marco: Quella che più ti piace.
Mi capita sempre più spesso di sentirmi dire “sai che ho scritto una canzone?”. Poi chiedo “ah, e come fa?” e mi sento rispondere “no, ma ho scritto solo il testo”. Come se a fare una canzone sia il testo e non la musica. La gente sembra non rendersi nemmeno conto che, sotto le parole, ci siano note che la voce sta cantando (basterebbe giusto pensare al fatto che cambiando melodia ma lasciando il testo uguale la canzone cambia, mentre cambiando testo ma lasciando la melodia uguale la canzone rimane più o meno inalterata). Voi quanto considerate importante la musica e quanto il testo?
Marco: Domanda retorica, suppongo. Sai benissimo che per noi prima di tutto viene la musica. Questo non significa che i testi siano pura “decorazione”. Tengo molto alle parole. Semplicemente per me il testo più bello del mondo, cantato su musica di merda, è un buco nell’acqua.
Francesco: Molti musicisti/parolieri credono di essere poeti. Allora che suonano quei 4 accordi a fare? Tutti a scrivere poesie, forza!!! Molti musicisti aspirano ad essere poeti… come se la musica fosse secondaria.
Marco: Quoto Francesco.
D’accordo anche io.
Marco: Tutti d’accordo quindi. Procediamo?
Francesco: Firma e timbro.
Si, direi che dopo tre ore possa andare.
Francesco: Stasera abbiamo dato il meglio di noi… a tratti (ride).
Marco: Si. siamo stati forti.
Autore: Giuseppe Galato
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