Il progetto Ronin riparte, dopo due anni da “L’ultimo re”, con un nuovo batterista e con collaborazioni eccellenti tra le quali quelle di Enrico Gabrielli (Calibro 35/Mariposa), Nicola Manzan (Bologna Violenta) e Umberto Dorella, padre del poliedrico Bruno, qua alla sei corde. Con Nicola Ratti, Chet Martino e Paolo Mongardi, che si dividono tra basso e batteria, scopriamo che le risorse artistiche dei Ronin sono tante. Con “Fenice” il quartetto di base a Ravenna dimostra che ha ancora molto da dire.
Per “Fenice” il sound è fondamentalmente strutturato attorno ad un post.rock che trascende dal genere stesso, attraversa cavalcate western e morriconiane che formano un sound più completo, non asfittico. Il disco si apre con il crescendo di “Spada” nel quale i Ronin vanno oltre i più futuribili Tortoise, a seguire “Benevento” introdotto da un incipit rock e che prosegue lungo coordinate spezzettate e diretto verso un funky gonfio, simile a quello dei Rosolina Mar. “Selce” è un lento jazz’n’blues misterioso e multicromatico, mentre “Jambyia” è una cavalcata diretta in Messico, con un piano che interviene nella seconda metà del brano per dare un’ambientazione cupa.
Con la title-track il gruppo spinge lentamente verso un’intensa profondità con leggiadria e un approccio orchestrale che fa assaporare il gusto pieno della musica. Dopo l’unico brano cantato, “It was a very good year”, come Emma Tricca alla voce, e l’avvolgente e conturbante “Gentlemen only” si giunge all’arpeggiata “Nord” che gradualmente si trasforma in una cavalcata rock. Il finale è la ciliegina sulla torta: i fiati latini di “Conjure men”, grazie al prezioso apporto di Gabrielli, Raffaele Kohler (tromba) e Luciano Macchia (trombone), chiudono un album straordinario.
Autore: Vittorio Lannutti