Dopo il successo de “Le Conseguenze dell’ amore” Paolo Sorrentino ritorna nelle sale con il conturbante “L’amico di Famiglia”. Prima novità per il regista napoletano è l’assenza del suo sodale Toni Servillo che lo aveva accompagnato, finora, in tutte le sue opere. Stavolta è Giacomo Rizzo a dare forma alla fantasia visiva del regista napoletano che vuole raccontare lo squallore attraverso la bellezza e la bellezza attraverso lo squallore, l’innocenza attraverso l’irredimibilità, l’immoralità servendosi della compassione.
Sorrentino ritorna al termine del denaro come veicolo di mostruosità quasi infantile che riesce a far coabitare sentimenti puerili di affezione con quelli più molesti della sopraffazione, facendoli emergere con una intermittenza intelligente. Non è però un discorso austero sull’immoralità che ha ormai contaminato ogni sentimento umano, ma è un tentativo di individuare nell’immoralità stessa una modalità d’espressione. Un po’ come Oblomov che all’amico incapace di amare il manigoldo e l’usuraio, risponde “L’uomo, datemi l’uomo”. Sorrentino risponde alla stessa maniera scommettendo su un uomo che non riesce mai a spendere, ad investire il suo animo. Il suo unico investimento è la strategia del prestito disonesto che ripromette una restituzione da cui Geremia recepisce un influsso vitale. Infine però cadrà vittima delle sue regole da carnefice, alla ragazza che gli presta il suo amore è pronto a dare in cambio, con un tasso d’interesse spietato, tutto il suo patrimonio.
Soltanto il conoscente più stretto riesce a carpire le sue debolezze incrollabili e a sfruttarle per un inganno estremo, un tradimento che, per le sua efferatezza, stabilisce un legame empatico tra spettatore e “monstrum”: mostro come manifestazione ineffabile, ma vibrante di componente vitale. Ma non si tratta solo della vecchia dinamica della celluloide secondo la quale è sempre piacevole scoprirsi a tifare per il colpevole, il criminale o il boia, bensì è un percorso che vuole indicare quanta immedesimazione produca una vicenda inumana ed aberrante. Perché, ed è questo il motivo per cui Sorrentino è un regista dell’uomo secondo quella componente goncaroviana e non un ritrattista sociale, Geremia de’ Geremei non è un usuraio per scelta, lo è quasi per colpa di un aborto divino. Quasi da un altro pianeta arriva come un colpo nell’occhio la presenza della Chiatti che, al di là del valore della sua prestazione, offre un’interpretazione estranea all’intensità dell’opera.
Anche il commento sonoro che prima è gestito splendidamente ( vedi la scena della gravidanza, in sotto fondo per poi esplodere ) diventa talvolta un olio per lubrificare delle lungaggini che sembrano parlare con linguaggio quasi pubblicitario : è il pericolo di chi si dà all’estetica dimenticando la contaminazione oggi più prossima, cioè quella dell’intermedialità. Nonostante questo ed un montaggio che sembra aver omesso parecchio della versione originale, “L’amico di famiglia” è un film che ogni spettatore fedele al buon cinema dovrebbe vedere soprattutto se è rimasto deluso, a ragione, dall’ultima prova di Garrone, altro esponente della moderna nouvelle vague italiana. Il “Primo Amore” del regista romano impallidisce a confronto di questo film forse non completo, ma carico della sordida potenza che può acquistare l’autentico.
Autore: Roberto Urbani