di Paolo Sorrentino con Sean Penn, Frances McDormand, Tom Archdeacon
Io l’ho visto l’ultimo di Sorrentino. In tanti, davvero, si stanno esercitando a criticarlo, bene o male, per sentito dire. Con questo film non so perché è andata così. Con permesso, oggi critico anch’io: a me non è dispiaciuto. Uso questa formula sarchiaponica quando non mi va di dire “sì m’è piaciuto un sacco” oppure “m’ha fatto…star male”.
Il fatto è che a non dispiacermi è la passione del filmaker napoletano per i personaggi lenti. Lentissimo Titta di Girolamo (Le conseguenze dell’amore), abbastanza lento Tony Pagoda (L’uomo in più), lemme lemme l’usuraio Geremia (L’amico di famiglia). E Andreotti, che te lo dico affà. Lento anziché rock, ma Celentano vaderetro, anche questo Cheyenne, uno Sean Penn cotonato e rimmellato. Elogio dei tempi posati, del rallenty umano. Gesti e spasmi frenati, gelati, nella condizione d’autorità dei protagonisti dello schermo. Autoritario è anche il rocker di “This must be the place”. Benché in disgrazia resta una star del suo paesino e ne detta i tempi. Al cimitero come nella vita amorosa della figlia teenager.
L’inizio è faticoso, mugolante (la voce di Penn doppiata una schifezza!), noioso anche. Momenti in cui i morbidi su e giù della macchina da presa appaiono fuori luogo, vista la pochezza della narrazione (è sempre una questione di racconto). Ma, oibò, forse sono le antipatie che intendeva suscitare per farci odiare Cheyenne. Tutto cambia quando gli muore il papà e la vita torna a sorridergli. Un ossìmoro biografico, ma quest’è.
Ora il marilynmanson che gira col carrello della spesa ha una ragione di vita – braccare il nazista che umiliò suo padre – e (s)trascina Sorrentino nel road movie. E poi i piani sequenza. Quanto è bella la scena del concerto con David Byrne. La macchina non stacca mai: inquadra e indietreggia. La donna che sfoglia la rivista, il microfono, il palco, la gente, fa una torsione e becca Sean Penn che piange tra la folla. Mentre i cinefili sorridono.
Ci si attendeva di più quando tutto il mondo seppe della collaborazione Sorrentino-Sean Penn. Dopo il primo vociare (maligno) sul film a Venezia, invece, mi aspettavo il peggio. Non ci ha convinti fino in fondo, va detto, però quel vecchiazzo nudo con le pelli appese in mezzo al nitore della neve ci ripaga di tanti sbadigli.
Un’altra cosa non convince: la rinuncia all’italianità. Il film è americano, il mood hollywoodiano. Ricalca “Somewhere” Leone d’oro 2010 di Sophia Coppola. In nulla o quasi si distingue per la mano d’artigiano peninsulare che concede diversità e perciò identità e “classicità” all’opera.
(ps. Per spiegarmi meglio: Fellini sapeva essere universale e insieme arcitaliano perchè era di provincia. Era consapevole che quelli di città, delle metropoli, delle megalopoli, disprezzano l’alieno col trolley di cartone e le chiazze rosse in faccia ma apprezzano e invidiano il suo mondo dannatamente esotico. Ora sostituite il nome “Fellini” con “Saviano”: il discorso è lo stesso).
Autore: Alessandro Chetta