I film girati in classe hanno un limite. Sono tutti molto simili, cioè almeno lo schema è simile: un prof imbranato, incazzato o ispirato da Whitman e frotte di alunni, consueto mappamondo pedagogico.
Stavolta è diverso, e dobbiamo dire grazie alla raffinata scrittura che dirige la mano sicura di Philippe Falardeau. Rispetto al sopravvalutatissimo ‘La classe’ (strappò la Palma d’oro a Gomorra e Il Divo nel 2008 per il solito sciovinismo transalpino) siamo su tutt’altro pianeta.
Il viso severo e grifagno del prof (interpretato da Mohamed-Fellag) racconta almeno due storie – una tra le mura scolastiche, l’altra tra le mura color crema di un tribunale – che si svelano molto lentamente allo spettatore come carte da poker.
Un affresco di sentimenti fragili come carta velina in cui grande è la maestria nel connettere il dolore lancinante del profugo algerino Bashir Lazhar al trauma non meno solido che affligge i suoi perspicaci allievi undicenni, scossi dal suicidio dell’amata maestra, impiccatasi tra i banchi quando meno te lo aspetti.
Sullo sfondo l’innevato e morbido paesaggio umano canadese, faro di civiltà spaccato dalle angosce delle grandi incongruenze umane (togliersi la vita quando tutto va bene, perché?). I rivoli dolorosi resi freschi dal montaggio di Stéphane Lafleur infine sfociano nel mare del mutuo soccorso. Il professore assolve gli alunni e viceversa.
Liberatorio e commovente.
Autore: Alessandro Chetta