Appena il tempo di beccare “f#a#¥” dei Godspeed You Black Emperor (lo so… il punto esclamativo… ma allora, 1997, non c’era nel moniker), che ne segnò la ascesa ai favori della critica, e la Kranky è sparita dai miei “compiti” per casa. Scelte redazionali, e poi bisogna pur lasciare un po’ di spazio agli altri (dio quanto le meno…). In effetti “Antithesis” stazionava sugli scaffali da un po’ per latitanza del Kranky-reviewer titolare, per cui sai, mettici pure un po’ di reminiscenza degli esordi… e il gioco è fatto. O mi verrete a dire, orecchio fine a pate, che per trattare siffatto materiale ci vuole patente o roba del genere.
D’altra parte il nome di Keith Fullerton Whitman me lo sono ritrovato spesso davanti – anche nel electro-glitch-break moniker Hrvatski -, e so, qualcosa più di vagamente, cosa mi aspetta. Sotto dati anagrafici Whitman ne ha realizzate di varie smanettando tanto con chitarra che col computer, ma era da “Playthroughs” – suo primo album, 2002 – che non se ne riaveva discografica notizia. Allora – dicono le cronache – si trattò di processare fraseggi improvvisati di chitarra su memoria RAM, per lunghi, dilatati drones.
“Antithesis” – che, oltre a segnare la prima uscita vinyl-only (copertina old-fashioned, occhio) per l’etichetta di Chicago, è solo un passo intermedio (appena 27 minuti) verso “Multiples”, l’annunciato “vero“ nuovo album – va in altra direzione, pur se, in certa parte, termina il proprio percorso in territori affini, dal punto di vista stilistico, ma non strumentale. Sotto questo profilo infatti Whitman ha “chiuso sessione” senza più riaprirla, lasciando a viola, chitarra, piano e percussioni il compito di affusolare e minimalizzare al meglio il droning di queste 4 tracce.
Senza cogliere tale dettaglio potremmo star dicendo le stesse cose di “Playthroughs” – e di chissà quanti altri dischi –, laddove invece l’artista di stanza a Boston, fottendosene di qualsivoglia interferenza digitale (chi ha detto che Kranky = elettronica? ambient, magari – alè!), rilancia le “utensilerie” dei minimal pioneers, lasciandosi alle spalle un bel po’ di odierni kraut-addicted che senza software (alle prese coi quali Whitman pure ha dimostrato di saperci fare) non vivono.
Autore: Bob Villani