La Germania ha bisogno di fare i conti col passato, come intrisa di un senso di colpa che si ritrova a condividere con il resto del mondo.
Ora, più che mai è la Germania “Democratica” a fare outing. Ad uscire dal silenzio censorio della dittatura pseudo-marxista. L’agente Gerd Wiesler (interpretato da un asettico Ulrich Mühe) è esattamente uno di loro, degli uomini della Stasi, la temibile polizia segreta. Non ha bisogno di pensare. Congettura.
Non ha bisogno di discernere. Esegue.
Georg Dreyman (Sebastian Koch), regista teatrale di successo, amico di troppi personaggi scomodi, non può essere così ossequioso al sistema, come lascia credere.
Non ha mai fatto un passo falso o una caduta di stile.
Mai detto o scritto una frase che potesse essere fraintesa.
Un po’ come il muro, è al centro di Berlino, ad assorbirne le due anime (quella ossequiosa del fiero compagno della DDR e quella libera dell’artista che ha come unica legge quella del rispetto della propria onestà intellettuale).
Ma la “perfezione” (anche solo apparente) genera sempre sospetti e quando accompagnata dalla presenza di una compagna procace e bramosa di successo, di affermazione o soltanto di affetto; è troppo facile finire sull’“altra sponda” e vedere il proprio nome nella “black list”.
Crista Maria (Martina Gedek), la compagna di Georg è, come capita in genere alle donne, la mela del peccato, il pomo conteso, l’ago della bilancia di una vicenda tanto vera quanto reale che ha fatto guadagnare al giovanissimo regista (appena 33 anni) l’Oscar come miglior film straniero: è lei a catalizzare l’attenzione della STASI verso il proprio compagno, è lei a complicare gli intrecci, a scioglierli e infine, a riallacciarli.
Intanto l’agente Gerd guarda e ascolta, come al cinema, la sua vita e soprattutto, quella del compagno Georg.
Finendo per penetrarvi e farsi penetrare: la corazza che ottusamente lo circondava, viene scardinata, come in un soffio di vento, dalla parola nuda e dura di roccia di Brecht: ora può sentire il suo cervello a fatica ricominciare a funzionare e il cuore da qualche parte nel suo corpo, assumere un aspetto umano.
Conosce l’angoscia e la pietas in un mondo qualche attimo prima vestito solo da paura e ottusità.
“Le vite degli altri” è la storia di una catarsi: la storia della trasformazione di un uomo e di un paese che imparano a vivere autonomamente e ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Un film necessario, in un’epoca persa nel turbinio di una modernità senza radici.
Ma al film manca il cuore.
È freddo, non ha pathos.
Non c’è catarsi nello spettatore, né un rantolo di emozione.
È uno sciroppo insapore, un toccasana senza gusto.
Una curiosità: Ulrich Muhe è stato sposato con una ex- collaboratrice della Stasi.
Autore: Michela Aprea