Non deve essere un tipo facile Bradford Cox se è vero, come si sente dire in giro, che il concerto di questa sera ha rischiato addirittura di saltare per una questione di volumi troppo bassi, ma del resto l’istrionico leader del gruppo di Atlanta non è famoso certamente per essere un tipo ordinario e “Monomania” non sembra essere un titolo a caso se vai in giro con parrucche improponibili e nel tuo curriculum live c’è l’esecuzione di una cover di “my sharona” della durata di un’ora.
Il concerto, che rientra nell’ambito del “Rocker Festival”, inizia alle 22 esatte e tutti i problemi di cui sopra sembrano essere solo una leggenda creata ad arte visto i volumi imponenti e le violente distorsioni delle tre chitarre presenti in scena. Se il suono che ci arriva fosse traducibile in un immagine, di fronte a noi ci sarebbe un inquietante monolite nero pece di kubrickiana memoria, perche Cox e soci più che navigare nelle consuete sonorità garage e indie-rock, sprofondano letteralmente nei sotterranei vischiosi dello shoegaze più sfrenato, nemmeno fossero i My Bloody Valentine, e prova inconfutabile di questa attitudine rumoristica è la cover proposta in una versione dilatata e ossessiva di “Blue Milk” degli Stereolab.
Non sono poi da meno altri episodi, pezzi dell’ultimo “Monomania” come “T.H.M. “ e “Neon Junkyard” che spogliati della loro veste garage vengono suonati in versioni particolarmente tirate condite da feedback sporchi e allucinati.
Il ritorno alla melodia e alle ricercate atmosfere avant-garde tanto care alla casa madre 4AD sono affidate ai due classici “Don’t Cry” e “Revival”, che anche se non perfettamente messi a fuoco, fanno venir fuori in maniera cristallina quell’incrocio tra il velluto e la carta vetro che è la voce di Cox.
Sono di nuovo le chitarre invece a riprendersi la scena quando vengono eseguite, prima, la splendida “Desire Lines”, con la sua lunga coda dream-pop che si attorciglia ai pensieri e all’anima, e poi la sua sorella-gemella “Nothing ever Happened” che alza di qualche mattone non solo il “wall of noise” che la band di Atlanta ha deciso di tirar su questa sera, ma anche la tensione emotiva di tutto il Bolognetti e perfino di Bradford Cox, tanto che durante la sua esecuzione si strappa letteralmente via i capelli: era un’improponibile parrucca!
Dopo qualche minuto i gesti inequivocabili di un addetto al palco ci ricordano delle assurde ordinanze cittadine in fatto di orari e divieti. Mancano dieci minuti alle 23 quando senza sosta arrivano “Sleepwalking”, “ Back to the Middle” e la conclusiva “Monomania” , ovvero un concentrato di (finalmente) sporchissimo garage e post-punk, condito da acide sferzate shoegaze che chiudono il concerto e ci lasciano con le orecchie sanguinanti.
Non ci sono bis, la dead-line è stata abbondantemente superata e anche dopo un set molto denso come questo, un’ora o poco più di concerto lascia gran parte del pubblico decisamente inappagato, soprattutto dopo l’impennata vorticosa del trittico finale.
Tornando a casa penso con rammarico a quanto vorrei essere un fan di Bruce Springsteen solo per poter tornare sfiancato dalle sue infinite maratone live, ma subito dopo rifletto che in fin dei conti poteva capitarmi anche una serata fatta di una sola e interminabile cover di qualche hit anni ’70, e allora canticchiando “walking free uohhhhh…” vado a letto sereno.
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autore: Alfonso Posillipo