Human Performance è il terzo album dei Parquet Courts, progetto musicale nato nel 2010 a Brooklyn, New York, prima suonando nei dive bar più sconosciuti e poi sempre più acclamati da critica e pubblico. Uscito agli inizi di aprile per Rough Trade, Human Performance è un lavoro diverso, ma non per questo meno interessante, rispetto a quel mezzo capolavoro indie e post-punk che risponde al nome di Sunbathing Animal (uscito per la What’s Your Rupture?). Lì il sound era aggressivo e arrabbiato, qui è più pensato ed eterogeneo; lì c’era una furia iconoclasta, qui siamo su un livello niente affatto mainstream ma abbastanza “studiato” da risultare maggiormente fruibile e orecchiabile.
Il disco apre con “Dust”, polvere, i nostri ci comunicano senza mezzi termini che dust is everywhere, dunque…sweep! (lavala via!!!), un verso probabilmente programmatico se si pensa a quello che è di là da venire, musicalmente parlando. Il brano è un bit fatto di pianoforti scordati, traffic noise e quel cantato monocorde che è il marchio di fabbrica di Andrew Savage. Un pezzo bello, diretto e alienante quanto basta. La title-track, “Human Performance”, ha un suono decisamente più orecchiabile, un bridge di cori compatti chiude le due strofe centrali per un pezzo tutto sommato godibilissimo.
Dopo l’interlocutoria “Outside”, arriva la nonsense “I Was Just Here”, con un finale ultraveloce che più punk non si può. “Paraphrased” rimane sullo stesso mood anticonvenzionale, con accelerazioni improvvise e un cantato nervoso che danno la misura del perché i Parquet Courts siano diventati in questi ultimi anni una cult-band dell’underground newyorchese.
“Captive Of The Sun” è un interludio accattivante a ciò che verrà di lì a poco, ovvero “Steady On My Mind”, brano abbastanza psichedelico e dal vago sapore Velvet Underground (quelli meno sporchi e dissonanti, chiaro), e “One Man No City”, pezzo parlato più che cantato da Savage su un tappeto di percussioni tribal e chitarre ben asciutte che chiude, stavolta sì, con un finale che è un evidente omaggio al rumorismo più sporco e cattivo marcato Lou Reed e John Cale.
Partorito nel 2010 da Austin Brown (chitarra) e Andrew Savage (voce e chitarra), entrambi studenti alla University of North Texas di Denton, il progetto Parquet Courts mette le radici a New York, dove i due si ritrovano assieme al fratello minore di Andrew, Max (batteria), e a Sam Yeaton, bassista di una band hardcore/screamo, anche lui newyorkese d’adozione, ma originario del Massachusetts. Il loro è un sound che guarda tendenzialmente al passato, al punk e al noise-rock, ma anche ai sixties e a certa no-wave. Indie, si dirà. E probabilmente questa è l’etichetta che meglio si addice a un un gruppo del genere. Tornando al disco, “Berlin Got Blurry” è una ballata irresistibile inframezzata da una chitarra tex-mex piuttosto imprevedibile, una miscela di generi sorprendente ma in definitiva gradevole.
Scende invece il ritmo con “Keep It Even”, la voce triste alla Daniel Johnston trova la sua “spalla” in un arrangiamento anche qui molto vario, dalle chitarre classiche, a una linea di basso malandrina che contribuiscono a colorare il brano con delle tonalità tra le più insolite.
Ci sono ovviamente tutti i Sonic Youth in “Two Dead Cops”, veloce, graffiante e cattiva in perfetto stile noise. Vira più sul punk-rock “Pathos Prairie”: Like how, we are wild/Like how, we are pure/Like how we despise/Like how we tell lies/Like how, we’re sure we’re gonna change!
Infine chiude l’album la lenta ed eterea “It’s Gonna Happen”, per un finale quasi sospeso dopo le accelerazioni e le improvvise frenate di un disco in definitiva piuttosto originale e, proprio per questo, decisamente interessante.
https://parquetcourts.wordpress.com/
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autore: Vincenzo Sori