Shadows on Earth” di Nero Diaspora (progetto che vede la collaborazione dei musicisti e compositori Rossella Cangini, Fabrizio Elvetico e Gandolfo Pagano) è un disco intenso, dal forte impatto comunicativo ed emotivo. Un lavoro discografico che merita “ascolto” per apprezzarne le tensioni e le intenzioni. Il trio presenta l’album con un live il 18 febbraio presso l’Auditorium Novecento di Napoli.
E in occasione dell’uscita di “Shadows on Earth” (edito da Folderol Records), abbiamo posto alcune domande ai suoi autori.
Un progetto e un disco, il vostro, che appaiono al contempo eterni e anacronistici rispetto alle declinazioni che il tempo dà alla musica (e all’arte in genere). Nero Diaspora e il suo “Shadows on Earth”, se da un lato codificano un linguaggio musicale e artistico “metastorico”, dall’altro certificano la scelta coraggiosa di andare controcorrente rispetto alle produzioni e al mercato contemporaneo (da qui il loro anacronismo). “Shadows on Earth” è, anche, un lavoro che necessita di una cura nell’ascolto, sia in termini di attenzione che di qualità di riproduzione; anche questo è un aspetto di cui si è persa la cultura. Da dove nasce, quindi, la volontà di comporre un disco come “Shadows on Earth” e come ha origine il progetto Nero Diaspora?
Fabrizio Elvetico: probabilmente dipende anche dal fatto che non sappiamo fare diversamente. Però la resistenza nasce anche da questo e dal fatto che questa estraneità amplifica il rifiuto per uno dei tanti risvolti del capitalismo neoliberale. Alla fine mi sto adeguando alla musica liquida, per quanto non ne faccia praticamente uso e mi dia sui nervi chi non solo la dia per scontata, ma addirittura faccia della consapevolezza della sua ineluttabilità una specie di savoir vivre. Ma non mi sorprende se una label mi propone di essere esclusivamente online; viceversa mi sono sorpreso quando la Folderol Records ha voluto anche stampare le copie fisiche del disco, dimostrando che siamo dalla stessa parte della barricata. Chiaramente è una cosa che mi ha fatto piacere, pur sapendo che nessuno acquista più in particolare i compact disc: un documento è tale anche nella sua concretezza, soprattutto se, come in Shadows on Earth, si prova a creare relazioni interne tra i pezzi e una sinestesia tra la musica, le foto e la grafica di copertina, il nome del disco e i testi riportati: cosa resta sulle piattaforme digitali delle dure foto di Francesco Napolitano, dell’arringa di Mike Prysner, del titolo minaccioso del disco? È una brutta storia: per quanto mi riguarda, aspiro solo a raggiungere qualche persona con cui, anche solo virtualmente, condividere questa musica. E mi si può anche ricordare che è tempo perso, basta che non ci si faccia dell’ironia su, perché rischio di diventare violento.
Rossella Cangini: sulla questione del coraggio, ritengo che possa avere il suo valore ed effetto collettivo, ma solo con un sistema a domino che crei rete e che unisca tutte le professionalità coinvolte nella produzione e fruizione musicale, altrimenti il coraggio rimane chiuso in una cerchia di forzata élite. Attualmente c’è una qualità tecnica molto alta che spazia in ogni genere, penso che abbia influito anche l’inclusione degli ultimi 20 anni della didattica del jazz e del pop nei conservatori, ma trovo anche che questo abbia smorzato il coraggio nel creare qualcosa di personale, svincolato da aspettative estetiche e stilistiche di confronto. In questo senso, non escludo la cosiddetta musica di sperimentazione, di ricerca, dall’improvvisazione radicale al free jazz, che se vissuta solo in funzione estetica (avendo una sua lunga storia di stili e periodi) rischia come gli altri generi di diventare maniera di quello che fu. Intendo dire che quando gli approcci diventano solo comportamentismi di genere, con fini rigidi e cristallizzati, si rischia solo di lucidare, anticare o replicare una moneta già forgiata da altri. Per questo parlo di ricercare qualcosa di personale, un personale pregno di influenze esterne, ma metabolizzate in modo libero e originale. Il fatto però è che se il mercato di promozione e fruizione non supporta con altrettanto coraggio queste personalità, selezionando solo “il facilmente catalogabile e vendibile”, il valore collettivo del termine “coraggioso” si ghettizza nel termine elegante di “élite”. In questo senso sono molto contenta di avere fatto il disco con la Folderol perché la percepisco un’etichetta attenta e sensibile a questa questione.
Dall’uscita di “Mirrors/Miroirs/Specchi”, datata 2014, sono trascorsi otto anni. Una pausa lunga. Cosa differenzia “Shadows on Earth” dal suo predecessore e quali sono i vostri progetti per il futuro?
Fabrizio Elvetico: intanto ne erano passati “solo” cinque, perché il disco lo registrammo nel 2019, poi c’è stato quello che c’è stato. Considerate le distanze geografiche, con Rossella che sta a Torino, Gandolfo nelle Madonie e io a Napoli, farne un secondo è stata una bella conquista. C’era il fatto che, risentendo il primo disco dopo un po’ di anni, percepivamo che non avesse reso granché dell’energia che riuscivamo a trasmettere nei live successivi, anche se a me alcune parti oscure e sporchissime di quel lavoro piacciono ancora. Abbiamo così escogitato delle formule che riuscissero a imbrigliare le modalità caratteristiche delle nostre interazioni improvvisative, dando più spazio alla componente ritmica e pulsante di Gandolfo, alle cento voci di Rossella e magari anche alla mia natura più ansiogena e goth.
“Shadows on Earth” è fortemente improntato sul “suono” e sull’improvvisazione; quale è per voi l’importanza di queste due matrici compositive, in relazione anche alle vostre individualità e al vostro personale percorso artistico poi confluito in Nero Diaspora?
Rossella Cangini: Vivo l’improvvisazione nel quotidiano come un mio personale approccio alla vita: dalla ricetta fatta con rimasugli del frigo (alternando gusti opposti o simili), alla ricerca di una comunicazione umana e sonora diretta e intensa (alternando momenti di tensione, riposo o sospensione); vedo l’improvvisazione come una capacità di dinamica relazionale tesa a creare un dialogo sonoro in base a ogni singolo vissuto. Ritengo, poi, che l’improvvisazione accenda le nostre capacità creative e comunicative, riuscendo a trovare noi stessi attraverso l’altro, ad attivare veri processi di crescita individuale e collettiva, ma questa magia scatta soltanto se si mette in primo piano un attento, attivo e rispettoso ascolto dell’altro (che sia un dialogo sonoro o verbale) e di ciò che ci circonda (rumori, suoni naturali, vociferare, manifestare…). I nostri background come Nero Diaspora sono diversi e compenetranti: Fabry è il punkettone e compositore colto, attento alla funzione inclusiva e comunicativa della musica, Gandolfo è l’improvvisatore più radicale e puro, e io in questi due loro mondi ho il ruolo di collante avendo sempre fatto ricerca al confine tra i generi e modalità vocali che oscillano tra il teatro di sperimentazione e l’improvvisazione nel jazz contemporaneo. Come dire, mi piace immaginare la voce come plastilina, libera di cambiare forma e contenuto in base alla percezione e agli stimoli che sento attorno a me. La mia attenzione al suono è molto legata al mio modo di improvvisare. Mi piace lavorare attraverso timbri vocali, anche in ragione della mia esperienza teatrale; il tutto in funzione più espressiva che estetica. Non mi interessa, infatti, l’estetica ma il valore emozionale legato all’espressività vocale (arrivando anche a raccogliere gamme di coloriture noise) per intrecciarmi con gli altri musicisti, per fondermi e bilanciarmi all’interno di un brano o di un’improvvisazione collettiva. La ricerca deve essere personale, e deve fare in modo che il suono sia una tua personale espressione, senza auto compiacimenti. Quando insegno ai miei alunni o nel corso dei workshop che tengo, spontaneamente cerco di trasmettere ai giovani il valore dell’improvvisazione e la mia idea di performance, anche per cercare di incuriosirli e di stimolarli a un qualcosa di diverso dal convenzionale.
Gandolfo Pagano: L’improvvisazione è un’occasione di relazione e d’incontro immediato sia con i suoni che con le persone. Il rapporto con Fabrizio e Rossella è di stima reciproca e di voglia di incontrarci per capire cosa possiamo esprimere e creare assieme. Il primo disco pubblicato come Nero Diaspora è stato un vero e proprio esperimento, con questo secondo, forti dell’esperienza fatta, abbiamo, in ragione anche della nostra diversa formazione, codificato un linguaggio e creato dei punti fermi; intorno a essi abbiamo poi costruito l’impianto improvvisativo. Sebbene provenga dal blues, dalla musica popolare e suoni la chitarra, faccio un lavoro di “negazione” del suono della chitarra; ciò poiché nel tempo mi ha iniziato ad annoiare la melodia e ho incominciato a sperimentare con la chitarra e con gli oggetti, arrivando a “simulare” anche l’elettronica, con riferimenti al suono ambientale, alla massa, nella ricerca di nuovi timbri sonori, secondo un’idea di suono astratto.
Fabrizio Elvetico: Condivido quanto detto da Rossella e Gandolfo sulla capacità dell’improvvisazione collettiva di creare relazioni; ed è questo l’aspetto che mi affascina maggiormente poiché è da molto che non sono più interessato all’individualità e all’autorialità nella musica. Credo che sia superata l’idea di un autore singolo che firmi una composizione musicale; mi interessa più essere parte di una comunità, di una collettività che crea assieme, in cui le singole personalità possono volontariamente e felicemente dissolversi. Da questo punto di vista la mia esperienza più esaltante è stata quella dei Flussi Sonori Aperti, un progetto che pensai nella veste di attivista dell’ex Asilo Filangieri durante il primo lockdown del 2020. Mi immaginai una composizione aperta e basata su criteri combinatori che coinvolse più di cento musicisti in Italia e oltre. La pensai per ribadire l’idea di interdipendenza propria di quello spazio culturale autogestito, in alcuni casi già vissuta con Geografie del suono, altro progetto pensato da me e che, allo stesso modo, ero stato felice di non firmare e di lasciarlo risultare come prodotto della comunità: del resto lo era anche, perché il principio di interdipendenza l’avevo veramente capito proprio in quel contesto. Quanto alle mie idiosincrasie di musicista, non sono particolarmente interessato alla ricerca sul suono in sé; ciò anche per i miei trascorsi artistici legati più a dei modelli sonori che a dei suoni in quanto tali. Mi piace far confliggere e contrapporre frammenti sonori che siano simulacri di stili disparati, cercando connessioni tra essi che siano impreviste, eventualmente affidandomi al caso. Questa mia attitudine, messa in Nero Diaspora, rappresenta un’altra delle eterogeneità che caratterizzano noi tre, ed è questo il bello, perché poi suonare assieme può essere davvero esaltante.
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autore: Marco Sica