Uno dei più grandi meriti che si possa attribuire alla band di Pordenone è senza dubbio quello di essere riusciti, durante tutta la loro carriera, a creare un cosmo di simboli, personaggi e storie. Storie che si sovrappongono e si rincorrono lungo il percorso tracciato album dopo album e live dopo live. Un processo mitopoietica che trova la sua massima sintesi nella memoria di chi ascolta, configurandosi come qualcosa di perennemente diverso ed uguale, e dove la faccia della Signorina Primavolta è ben distinta ma complementare a quella del protagonista di Quindiciannigià, così come Lorenzo Piedigrandi rincorre senza sosta Gianni Boy.
Il lavoro dei Tre Allegri Ragazzi Morti non si esaurisce nell’ascolto della loro musica: è solo una parte, una frazione (seppur importante) del loro universo. Così in questo “Nel giardino dei fantasmi”, la band si ricongiunge a radici dimenticate, forse semplicemente nascoste, ma che un ascoltatore attento riesce a identificare sin dalle prime produzioni, in un’analisi a posteriori, certo, e probabilmente anche influenzata da tutto ciò che significa “Tre allegri ragazzi morti”, senza limitarsi quindi alla semplice fruizione musicale, ma per questo stesso motivo anche più completa, generale, onnicomprensiva.
Subito dopo aver schiacciato (non senza curiosità) il tasto play, si entra in un nuovo universo. Anche senza indossare la celebre maschera, sembra davvero di affacciarsi su un nuovo panorama: il pizzicato continuo e inarrestabile di un mandolino fa da contrappunto, lungo tutta “Come mi guardi tu”, alla voce di Davide Toffolo, in una filastrocca d’amore verso la musica esotica.
Si procede con la più classica “I cacciatori”. Protagonista, come in molti altri casi, un adolescente (“Non guardarmi così, perchè ho quindici anni/sono io quello di cui parla la tv”), scomparso nei giorni della morte di Kurt Cobain.
Anche in questo caso bisogna andare oltre la semplice narrazione, entrare di forza nel piano connotativo del brano: i quindicenni del 1994 non sono altro che i trentenni di oggi. Il testo, cantato in prima persona dal protagonista dimenticato da tutti, potrebbe essere nient’altro che una metafora della delusione, dello smarrimento e dalla noia che contraddistinguono gli attuali quindicenni di allora.
I “figli di mezzo della storia”, volendo citare, con una funzionale forzatura, David Fincher (o meglio Chuck Palahniuk), venuti al mondo prima dei nativi digitali, ma dopo i baby boomers e della X-generation. La generazione che, più delle altre, ha vissuto la perdita della fiducia e della sicurezza data dall’ingresso nella post-modernità, nell’era dell’informazione che manipola e più che scoprire, nasconde e insabbia. Anche in “Bugiardo”, continua la battaglia contro i falsi miti, in questo caso contro la medicina occidentale e l’abuso di psicofarmaci.
Quarto brano dell’album, è il singolo “La mia vita senza te”, al quale hanno partecipato, nei cori, Frausin e Garzia dei Mellow Mood. Ipnotica quanto basta, è forse la traccia più “tradizionale” dell’intero album: un punto di incontro tra questa nuova produzione e la discografia precedente a Primitivi del futuro. Dopo la “fiaba” di “Alle anime perse”, si prosegue con l’altro singolo, rilasciato assieme ad uno splendido video, essenziale ma d’effetto: “La fine del giorno (canto n.3)”. I toni inquietanti del brano vengono scanditi da un mood afro-blues, in un brano che, in altri tempi, sarebbe potuto entrare a tutti gli effetti nell’area più psichedelica (se non per la musica, quantomeno per i testi) della produzione di Fabrizio De Andrè. D’altronde, come dichiarato dagli stessi autori, la canzone “E’ il fantasma che porterà per mano i ragazzi morti per tutto il lavoro”.
Uno sguardo indietro con “La via di casa”, in cui il mantra “Dimmi che cos’è che non va”, scoperchia un vaso di Pandora pieno di interrogativi. Aldilà dell’intento reale del brano, “La via di casa” mette a nudo la necessità di trovare delle risposte.
Dopo la breve parentesi di “E poi si canta”, con toni più allegri e spensierati, si ritorna brevemente al dub con “Il nuovo ordine”. Testo ridotto all’essenziale, una sola strofa ripetuta per quattro minuti, adagiata su riverberi che strizzano l’occhio al già citato “Primitivi del futuro”. Piacevole intrattenimento nell’attesa di “Di che cosa parla veramente una canzone”, traccia di chiusura avvinghiata con unghie ed artigli al mondo reale. Ritmi ballads di crunch guitar e tempi standard, ma ovviamente in puro stile Tarm.
In definitiva, il settimo album del trio di ragazzi mascherati segna solo un’altra tappa, più che riuscita, della loro evoluzione. E chi si chiedeva in quale modo avrebbero stupito questa volta, adesso ha a disposizione un elemento valido per cercare da sé le risposte.
Un disco etno-folk, nel vero senso del termine e a quale etnia si riferisca non importa. Molto probabilmente a quella del popolo dei ragazzi morti.
Autore: Alfredo ‘Alph’ Capuano