Tre: gli anni lasciati passare dal primo disco, Sigh no more. Cinque: i milioni di copie venduti. Due: le nomination ai Grammy Awards nel 2011, quando per l’occasione hanno calcato il palco insieme a Bob Dylan interpretando una versione corale di Maggie’s Farm. Quindici: le meravigliose tracce del secondo lavoro dei Mumford & Sons, in testa alle classifiche dei dischi più venduti già dalle prime settimane dall’uscita.
Quello che stupisce di questo disco è la meraviglia. La potentissima energia degli strumenti che non hanno bisogno di nessuna amplificazione per farsi ascoltare.
Le canzoni di Babel sono la conferma di tutte le aspettative con cui la band londinese ci aveva lasciati alle soglie degli anni dieci, nella speranza che non si trattasse dell’ennesima storia d’amore musicale bruciata e consumata in poco tempo.
Marcus Mumford e compagni sono stati sinceri dall’inizio. Quello che succede in questo secondo disco è prendere quanto di buono c’è stato nel loro debutto e portarlo alle estreme conseguenze: una voce potente, costantemente in crescendo sulle note, afferma tutto sommato che nonostante tutto è bello stare al mondo; le corde del banjo di Winston “Country” Marshall che si intrecciano e, se si prova a immaginarle, arrivano a formare trame dorate.
La coralità della gioia perpetua, un inno alla vita che si impone a dispetto di ogni cosa, intorno. Quasi come se i Mumford & Sons vivessero in un’altra epoca o non avessero la minima idea di cosa stia accandendo, nel frattempo, nel mondo.
Sono tracce che spazzano via la pioggia. Non sembrano nate sotto il piovoso cielo londinese, ma hanno tanto dei grandi campi assolati d’America. Ghost that we knew è quanto di più malinconico resta in un disco che nasce dalla gioia pura, una canzone che ricorda le ombre di Laura Marling (compagna di Marcus Mumford) o le ballate dell’amico Johnny Flynn.
O forse non si tratta di ingenuità. Forse si tratta di coraggio.
When I’m on my knees I still believe si canta in Holland road. Sì, deve essere così. Ci vuole un sacco di coraggio per predicare gioia, di questi tempi. E per sperare ancora, pure.
Autore: Olga Campofreda