Dean Bowman è un omone dallo stomaco immenso che nereggia sotto una camicia bianca opacizzata dal sudore. Viso concentrato, butta basso la bazza, unisce le mani a formare un nicchio di suono, riprende fiato dopo una diplofonia il cui armonico diventa una lucciola nella caligine delle luci.
Dean Bowman che ha la voce di Dio, parola di Madonna Louise Ciccone, questa sera antepone l’estro per seguire un secolo: immaginatevi un canto allentato su una croce, alle spalle un catenaccio imbrunito dalla vanga e più in là un requiem di lavoratori lungo un Mississipi decantato che albeggia, spirituali abbacinanti provenienti da una chiesa in assemblea dell’Illinois.
L’ensemble di stasera accompagna senza particolari invenzioni una specie di martire verso la redenzione. Dean di tanto in tanto si rivolge al Signore come un servo sulla via del peccato. Legge un moleskine in cui pare appunti flessibili note, fesserie tanto per ridere o magari le reazioni del pubblico e quando la serata prende piede, il suo diventa un canto fuori campo.
Il teatro Studio non è strapieno, sarà che è domenica e la gente preferisce riposare prima di rientrare a lavoro, sarà l’afa che convince alcuni a restare a casa. In strada cigola lo scratch di un dj set posizionato nel bar all’aperto del Milano Film Festival, le luci dei lampioni hanno appena fatto il primo giro di giostra e nell’aria c’è odore di birra e legno bagnato.
Mi trovo costretto letteralmente ad arrampicarmi in seconda balconata, ma lo stato d’animo è rassicurante anche perché le spalle di Dean sono protette da un mostro sacro come Hamid Drake, che sa rievocare un suono affogato nell’oblio dal caldo di una fascinazione.
La sua carriera parla per lui: Brotzmann, Sheep, Fred Anderson, William Parker. I milanesi hanno già conosciuto queste due personalità, l’anno scorso al Teatro Manzoni per la consueta stagione di “Aperitivo in concerto”.
Bowman in particolare fece capolino in dicembre nel matinè diretto da Steven Bernstein, per un omaggio al grande Sly Stone.
Il Bowman 5tet di questa sera invece si inserisce all’interno del programma MITO inaugurato il 4 di settembre. Varie anime, prima di tutto Vincent Erdeven (tastiera e chitarra) e Eric “raggy” Sevret (sax tenore) che bazzicano simili percorsi dub, poi c’è Angus Thomas (basso) conterraneo di Drake, di Chicago che si divide tra itinerari acid e reggae.
Nei glissandi di Dean si possono toccare le radici di un’intera schiera di cantori dell’exploitation. Brani come Right now, You’ll need somebody on your bond sono testimonianza di vite appese ad un filo ansimanti giustizia, diventate grossomodo litanie, motivetti, quasi leggende.
La voce baritonale di Dean ha estensioni che potrebbero permettersi virtuosi, si impegna tuttavia a versare sospiri sulle mani giunte, quasi in preghiera. Un Glory, Glory confessionale dà infine l’imprinting ortodosso alla serata. C’è posto e tempo anche per esplorare un caro amore, l’acid jazz, ma anche qui il quintetto si limita ad una rigorosa osservazione del vangelo: Brand New Heavies, Incognito, cose così. C’è però da sottolineare una tenacia e una istintiva educazione gospel, supportata da tanto studio, da tanto lavoro.
Dean effettivamente ha un dono che qualcuno, in carne o in spirito, gli deve in qualche modo aver dato. Bastano una manciata di ore squisite per capirlo e per sognare ancora un po’ certe gocce di perle afroamericane.
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autore: Christian Panzano