Nel celebre romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Tancredi pronuncia la nota frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”; tale affermazione ben si sposa con “Luck and Strange” (Sony Music), l’ultima fatica discografica di David Gilmour, un disco che se da una parte mostri intenzioni di “cambiamento” (i primi singoli avevano fatto ben sperare) dall’altra resta ancorato a un solido e certo passato, con un rinnovamento che lascia il posto a una più rassicurante “comfort zone”, per un lavoro discografico che, terminato l’ascolto, e con uno sguardo di confronto con il passato, è tra i più riusciti lavori solisti di Gilmour; ma andiamo per ordine.
- Premessa
Prima di affrontare nel dettaglio quanto contenuto in “Luck and Strange”, per onestà intellettuale è opportuno riportare quanto già espresso su queste pagine in occasione dell’uscita del singolo “The Piper’s Call” e della pubblicazione del “The Dark Side Of The Moon” di Roger Waters, laddove dissi di non essere mai stato un estimatore del David Gilmour solista (ho sempre apprezzato di più il Roger Waters solista di “The Pros and Cons of Hitch Hiking” e “Amused to Death”; menzione particolareggiata va poi allo splendido “Nick Mason’s Fictitious Sports”, disco formalmente a nome di Nick Mason ma di fatto composto da Carla Bley che ne prende parte anche come musicista).
Devo però altresì precisare che i Pink Floyd hanno fatto parte integrante della mia adolescenza e contribuito alla mia prima “formazione” musicale tanto da essere anche andato diciassettenne, nel 1994, in trasferta a Roma per vederli dal vivo.
Se, infatti, con i Pink Floyd (per approfondimenti rimando a quanto qui scritto in occasione dei 50 anni “The Dark Side Of The Moon”), Gilmour era riuscito a essere “unico” e fondamentale, tanto da dare alle stampe anche con i Pink Floyd stessi, dopo l’abbandono di Roger Waters, due dischi comunque ben fatti quali “A Momentary Lapse of Reason” del 1987 (da citare “Learning to Fly”, “On the Turning Away”, “Sorrow”; celebre il concerto a Venezia del 15 luglio 1989, dal Another Lapse European Tour, entrato nella storia) e “The Division Bell” del 1994 (in cui torna la mano anche di Richard Wright; da citare “What Do You Want From Me”, “Coming Back to Life”, “Keep Talking”, “High Hopes”), a proprio nome aveva sempre mostrato poca ispirazione.
Tale carenza si era poi palesata con forza nel discutibile “The Endless River” del 2014 a nome Pink Floyd (sebbene il materiale risalisse in parte a registrazioni del 1993/1994: “… an album put together principally from recordings in 1993/1994 for The Division Bell, along with additional material recorded in 2013/2014 …” – si legge sul sito https://www.pinkfloyd.com/history/timeline_2014.php consultato il 25 aprile 2024), e in alcune collaborazioni come ad esempio quella con i The Orb (di cui si è parlato qui).
Di fatto David Gilmour è stato esatto chitarrista capace di esaltarsi con i Pink Floyd e di esaltare i Pink Floyd stessi, marchiandoli a fuoco con la sua chitarra quando innestata però in un più ampio tessuto compositivo; chitarra però che è stata al contempo suo pregio e suo insuperato limite.
Gilmour non è mai riuscito, negli anni, né ad affrancarsi pienamente come compositore, né soprattutto a liberarsi del suo stile che, alla lunga, si è mostrato monolitico e ripetitivo; ciò a differenza di suoi colleghi vicini per età e “genere”: mi viene in mente quanto diversamente operato dal genio di Robert Fripp dei King Crimson (per approfondimenti leggere lo speciale sui King Crimson ‘La “frammentazione e reinvenzione” dei King Crimson. Una retrospettiva per uno dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi‘).
- “David Gilmour” e “About A Face”
Se, infatti, si tralasciano le tre parti di “The Narrow Way” contenute su ”Ummagumma” del 1969 dei Pink Floyd (il contesto e il momento storico erano ben altri), il solo omonimo “David Gilmour” del 1978 aveva palesato spiragli di luce con la bella cover “There’s No Way Out of Here” degli Unicorn di Ken Bake, con la ballata strumentale “Rise My Rent”, l’ariosa e sempre strumentale “Mihalis” – che cantata sarebbe stata perfetta -, la funzionale radiofonica “No Way”, “Short and Sweet” – scritta con Roy Harper e che preannunciava il Gilmour dei Pink Floyd post Waters – e l’improvvisazione sulla cavalcante “Deafinitely”, penalizzata solo dalla presenza di sintetizzatori un po’ démodé…; meno convincente, invece, il debole “rock/blues” di “Cry from the Street”, la morbida ballata “So Far Away” e una lenta “I Can’t Breathe Anymore” che appariva scollata dal suo poi incalzante finale.
Le intuizioni di “David Gilmour” venivano in parte minore e con meno successo replicate dal successivo “About A Face” del 1984 (anche perché impregnato di sonorità anni ottanta come dimostra per tutte “All Lovers Are Deranged”; da annoverare però comunque la composita “Murder”, “Love On The Air” e l’intima “Out of the Blue” ).
In “About A Face”, tra i solchi, continuavano a emergere anche alcune buone idee che sarebbero poi confluite e messe meglio a fuoco nei succitati dischi dei Pink Floyd (come in “Until We Sleep” o nella parte finale di “Murder”). Se poi in “Blue Light” Gilmour cercava finanche una fusione tra le chitarre di “The Wall” e la black music, in “You Know I’m Right” proponeva evidenti inserti orchestrali che diventavano invadenti nella strumentale e “imbarazzante” chitarristica “Let’s Get Metaphysical”. Nella poco riuscita “Cruise” trovava spazio anche il reggae, mentre in “Near the End” si avvertivano addirittura nelle chitarre d’accompagnamento umori da “The Final Cut”.
Né serviva il fatto che, rispetto al suo predecessore, per “About A Face” Gilmour si avvalesse anche di musicisti di spicco quali, tra gli altri, Jeff Porcaro, Pino Palladino, Steve Winwood, Bob Ezrin, Jon Lord, Michael Kamen…
- “On An Island” e “Rattle That Lock”
Se già aveva mostrato forti incertezze “About A Face”, David Gilmour purtroppo si perde ulteriormente nei lavori successivi, cadendo in un’indefinita e impalpabile nube, come testimoniano e sintetizzano con esattezza, sebbene con caratteristiche diverse, sia “On An Island” del 2006 che “Rattle That Lock” del 2015.
Da “On An Island”, “Castellorizon” è strumentale più adatto ad essere colonna sonora che brano in sé, con la chitarra di Gilmour che non riesce mai a liberarsi del suo passato, “On an Island” e “The Blue”, al netto dei ripetitivi assoli di chitarra, sono ballate soft rock che sembrano un “vorrei ma non posso” assomigliare a quel capolavoro che è “Aja” degli Steely Dan, “Take a Breath”, con un un incipit discutibile, debolezza reitera nel ritornello e nell’intermezzo strumentale, e “This Heaven” cercano di evocare, senza riuscirci, i sussulti dei Pink Floyd di “A Momentary Lapse of Reason”, “Red Sky At Night” e vacua composizione in cui Gilmour si cimenta senza successo anche al sassofono, “A Pocketful of Stones”, potenzialmente il brano più interessante, è però appesantito da orchestrazioni … non risollevano le sorti del disco nemmeno l’acustica “Smile”.
In “Rattle That Lock” si concretizzano, con lineamenti ben definiti, finanche momenti più “black” come “The Girl in the Yellow Dress” o la stessa “Rattle That Lock”, mentre perplimono inusuali ibridi come “Faces of Stone”, strumentali fiacchi come “5 A.M.”, brani soporiferi come “A Boat Lies Waiting” o senza mordente come “In Any Tongue” e “Today”, dislocati notturni e inutili blues come “The Girl in the Yellow Dress” …
- “Live at Pompeii” e “Live in Gdańsk”
Nel 2016 Gilmour farà da solo (nuovamente) tappa dal vivo all’Anfiteatro di Pompei e pubblicherà nel 2017 un disco/dvd “Live at Pompeii” contenente le relative registrazioni live del 7 e 8 luglio 2016 nelle quali, alle poco convincenti nuove composizioni (“5 A.M.”, “Rattle That Lock”, “The Blue”, “Faces of Stone”, “A Boat Lies Waiting”, “In Any Tongue” …), ha affiancato alcuni classici dei Pink Floyd (una corale ma poco riuscita “The Great Gig in the Sky”, “Wish You Were Here”, “Money”, una “One of These Days” affidata alle sapienti “mani basse” di Guy Pratt , “Shine On You Crazy Diamond”, “Run Like Hell”, Time/Breathe (In the Air) (Reprise)”, la sempre torrenziale “Comfortably Numb”) e in cui spiccano brani dei “suoi” Pink Floyd (“High Hopes” con coda “acustica”, “Coming Back to Life”, l’intensa “Sorrow”, “What Do You Want from Me”); non manca un ritorno al passato con “Fat Old Sun” in cui una voce non più giovane purtroppo ne penalizza la resa e la poetica.
In precedenza, a suo nome, la pubblicazione anche di “Live in Gdańsk” del 2008 (contenente registrazioni del 2006, anch’esso in versione disco e dvd) in cui dagli “archivi” oltre a “Fat Old Sun” compaiono “Astronomy Domine” e una “Echoes” di 25 minuti e più, e in cui è presente una “Shine On You Crazy Diamond” con un “cuore” centrale più intimo; alcuni brani sono eseguiti con la Polish Baltic Philharmonic Orchestra, diretta da Zbigniew Preisner (che aveva curato le orchestrazioni già in “On an Island” e che lo farà anche in “Rattle That Lock”), che fortunatamente risulta “contenuta” e non invasiva. “Live in Gdańsk” contiene anche tre “Barn Jam” (166, 192 e 121) eseguite da Gilmour alla chitarra e alla lap steel guitar, Guy Pratt al basso, Richard Wright alle tastiere e Steve DiStanislao alla batteria (nella n. 192 i musicisti si scambiano gli strumenti e Gilmour sarà alla batteria, Pratt alla chitarra e DiStanislao al contrabasso elettrico, come si vede dai video sul canale YouTube di Gilmour).
- “Luck and Strange”
Ed eccoci così giunti a “Luck and Strange”.
Apre il disco la strumentale “Black Cat” che si colloca nella “tradizione” in stile “Cluster One” e “derivati”, qui però ridotta all’osso del suo minuto e sedici, con un Gilmour che non si discosta da se stesso per un’ouverture anche evitabile.
“Luck and Strange” riporta l’attenzione dell’orecchio al vinile, per un brano dalle nuance blues contraddistinto da aperture in stile Pink Floyd post Waters che fanno il loro ingresso in scena e da una coda strumentale con la chitarra ovviamente in assolo e in fraseggio con le tastiere (‘Nella title track è presente anche il tastierista dei Pink Floyd Richard Wright, registrato nel 2007 durante una “Barn Jam” a casa di David’ si legge sul sito della Sony https://store.sonymusic.it/products/cd-luck-and-strange-david-gilmour?_pos=1&_sid=ad042bb1d&_ss=r – consultato il 6.9.24).; il brano si lascia ascoltare con piacere, ma ha come pecca una voce di Gilmour, non più giovanile, che non convince in relazione alle “esigenze” del cantato.
Con “The Piper’s Call” (torna il pifferaio “The flamеs are high, the piper’s call, contagious/A fixеr who will numb your pain, and strangeness”), Gilmour se da un parte mostri un lato più cantautorale (l’incipit e la strofa), nelle melodie e nelle sonorità più “rock”, soprattutto espresse (ancora una volta) nelle aperture, torna a soluzioni che hanno caratterizzato parte della miglior produzione dei Pink Floyd post Roger Waters; non manca l’assolo di chitarra nel finale segnato da un suono più asciutto di matrice rock blues.
“A Single Spark” è ariosa e sognante con un finale orchestrale e di assolo di chitarra che francamente non piace allo scrivente per l’eccessivo piglio “da salotto”; finale che Gilmour riesce comunque a far girare con esperienza.
“Vita Brevis” è (appunto) breve (anche esso inutile) intermezzo che porta alla bella “Between Two Points”, il brano più riuscito e “nuovo” (sebbene vecchio di venticinque anni) dell’intero disco.
Con “Between Two Points” Gilmour si affida ad una “cover” dei The Montgolfier Brothers (dal disco del 1999 “Seventeen Stars”). La matrice dream-pop originale viene riletta (senza essere snaturata) in una chiave che vira verso l’indie (con accenni allo slowcore): il risultato finale è sorprendente e inaspettato grazie alla resa “acustica” e alla giusta voce femminile di Romany Gilmour (che suona anche l’arpa); voce che sospende l’ascolto in un’aria intrappolata tra l’adolescenza e l’età adulta, che caratterizza e che rende il brano “esatta” ballata di genere (l’ho immaginata anche cantata da Hope Sandoval o dalla compianta Mimi Parker). Anche qui non manca l’assolo di chitarra nel finale in cui David Gilmour, pur conservando il suo stile, scarnifica e asciuga il suono, rendendolo più ruvido; mentre lo riascoltavo dalla finestra, in montagna, per uno strano destino del caso, dalla piana della valle, due mongolfiere gonfiavano i loro palloni per prendere il volo, un’immagine questa in perfetta simbiosi con la musica (e i suoi compositori) a dimostrazione di quanto sia efficace ed evocativa la chitarra di Gilmour. Come detto, già nel suo disco d’esordio omonimo del 1978, Gilmour si era ottimamente affidato a un brano non suo, “There’s No Way Out of Here” degli Unicorn (da “Too Many Crooks” del 1975 con titolo “No Way Out of Here”, disco dietro le cui fila stava proprio Gilmour quale produttore e come musicista ospite “aggiunto” alla pedal steel guitar). Oggi, come allora, la scelta di interpretare musica altrui si è mostrata vincente.
Anche in “Dark and Velvet Nights”, dopo un incipit quasi in stile “The Wall” Gilmour recupera in parte gli umori da “A Momentary Lapse of Reason” e da “The Division Bell”, sia nei suoni che nei cambi di registro, segnando così un più marcato passo indietro verso un rassicurante passato che si fa comunque gradire (anche per questo brano non manca l’assolo di chitarra in chiusura).
“Sings” è morbida ballata che serve solo a riempire più che a caratterizzare, tanto radiofonica quanto “impalpabile”; il finale strumentale lambisce territori ai confini con il canterbury sound senza però prenderne mai possesso.
Chiude formalmente “Luck and Strange”, “Scattered” il brano sicuramente più “ardito” in cui si impone un gusto per la sperimentazione nell’interessante intermezzo “orchestrale” e nei cambi di registro per un Gilmour che comunque non sa rinunciare alla sua chitarra, qui acustica ed elettrica negli assoli.
Vanno ancora menzionate le bonus tracks (del disco, come oramai consuetudine, ne sono state stampate diverse versioni) ascoltate nella versione “liquida”.
“Yes, I Have Ghosts”, nuovamente con Romany Gilmour, è acustica ballata a due voci contraddistinta dall’arpa e dagli archi.
“Luck And Strange (Original Barn Jam)” è esecuzione di circa 14 minuti che sinceramente mostra più i limiti dei musicisti coinvolti (sul più volte menzionato sito della Sony – a cui si rimanda – si fa riferimento anche alla presenza di Richard Wright), non tutti propriamente votati a questo tipo di “esperienze” per una jam meno psichedelica e più “blues”, e che non decolla mai in modo pieno e convincente, soffermandosi più su statici momenti “interlocutori”; nella chiusura anche le voci di sottofondo dei musicisti.
Tra i musicisti che hanno contribuito al disco figurano Guy Pratt e Tom Herbert al basso, Adam Betts, Steve Gadd e Steve DiStanislao alla batteria, Rob Gentry e Roger Eno alle tastiere mentre gli arrangiamenti degli archi e dei cori sono opera di Will Gardner (come si apprende dal sito della Sony, al link succitato, consultato sempre il 6.9.24).
Un’ultima considerazione sui testi scritti prevalentemente da Polly Samson in cui la “mortality is the constant”: ‘The majority of the album’s lyrics have been composed by Polly Samson, Gilmour’s co-writer and collaborator for the past thirty years. Samson says of the lyrical themes covered on ‘Luck and Strange’, “It’s written from the point of view of being older; mortality is the constant …”’ si legge sul sito https://www.davidgilmour.com/ consultato il 25 aprile 2024.
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