di D. Gaglianone, con F. Timi, V. Solarino, V. Mastandrea, S. Accorsi
Un due tre stella non bastava, e allora i bimbi e le bimbe coi genitori meridionali del rione dormitorio anni ‘70 occupano un castello, ossia una ammasso di ferraglia arrugginita e pericolante, ma bello, bellissimo, per i giochi di battaglia e per stringere patti amicali di sangue. Ma in agguato c’è il mostro dei piccoli con lo stetoscopio nelle orecchie, e il castello diventa una segreta per compiere atroci misfatti. Di recente m’è capitato di leggere una dichiarazione di Bertolucci. Intervistato su Novecento, sosteneva che la scena degli abusi sul ragazzino da parte del fattore fascista non destò particolare polemica perché ai tempo, metà anni Settanta, la pedofilia non veniva socialmente avvertita in maniera tanto aggressiva come oggi. A giudicare dal personaggio di Filippo Timi si direbbe di sì: un pediatra pederasta e omicida che ama la lirica e gli autolavaggi. Quindi un tipo “strano” ma di cui nessuno nella piccola comunità dubita: oggi invece la caccia coi forconi sarebbe scattata subito, preventiva. Se il film gira da un certo momento in poi – dopo una mezzora buona – e tiene sulla corda è solo merito suo.
Timi ha in carnet parecchie maschere, ma con il superlavoro (solo a Venezia è presente in 3 pellicole) rischia di giocarsele tutte. Cosa accaduta già a Mastandrea (presente anche qui e in lingua sicula ma in un ruolo che lascerà poche tracce) che di “maschere” ne ha al massimo due. Ma l’attore romano nella recitazione tende a scarnificare e non ad edificare, perciò il discorso fatto per Timi non vale.
A deludere piuttosto sono i bambini. Nel senso che, capiamoci, i baby attori non hanno colpa (tranne quella di non avere talento come lo ebbero al tempo il Pinocchio di Comencini o il Giorgio Cantarini de La vita è bella) ma lo script li ha ridotti a un polverone di “minchia qua e “minchia” là, più infantilista che infantile.
Accorsi e la Solarino, le altre due stelle in locandina, hanno uno spazio ridotto: sono due bambini fatti adulti che non riescono a deglutire la paura, mantenendoci virutosamente nell’angoscia (soprattutto Accorsi). Gaglianone, fino ad ora autore di lungometraggi fiction, si industria a raccontare per sussulti, attento alla assolata fotografia, con alcuni scollamenti nel montaggio e qualche indovinata trovata di regia che marca la sua presenza. Bella la scena finale: tre fantasmi nel metrò. Colonna sonora a tratti soffocante a tratti immaginifica firmata dalle Luci della centrale elettrica.
Autore: Alessandro Chetta